Barcellona vieta AirBnb: e se il turismo non fosse il nostro petrolio?

Dal 2029 Barcellona vieterà gli affitti turistici a breve termine: insomma, niente più Airbnb, quelle case verranno rimesse sul mercato. È una strategia che la giunta guidata da Jaume Collboni ha messo in campo per combattere l’overtourism e restituire quelle case ai residenti, con l’obiettivo ultimo di abbassare i prezzi degli affitti.

Di overtourism, poco ma sicuro, si parlerà molto anche durante questa estate del 2024. Secondo il rapporto annuale di McKinsey sull’argomento, l’eccessivo affollamento sarà uno dei temi del presente e del futuro del turismo. È compito delle amministrazioni, sottolinea il documento, “potenziare i trasporti e le infrastrutture, formare personale qualificato per il turismo e preservare il patrimonio naturale e culturale”. Per trovare soluzioni, ammesso che ce ne siano, è fondamentale però provare a capire di cosa parliamo quando parliamo di overtourism.

Come (e quando) è nato l’overtourism 

Molto di quello che consideriamo eccesso di turismo è iniziato dopo la pandemia, per quello che alcuni hanno chiamato revenge tourism, la riscossa turistica alla fine di due anni difficili per ogni genere di spostamento. È difficile raccontare l’overtourism: c’entrano una serie davvero ampia di fattori economici e sociali. Ciò che è certo è che si viaggia come mai prima. Secondo una stima delle Nazioni Unite, il 2024 sarà l’anno del sorpasso sul pre-pandemia: il numero dei turisti nel mondo crescerà del 2% rispetto al 2019.

A livello numerico e culturale, tuttavia, a contribuire a quello che viviamo oggi c’entra più di ogni altra cosa l’invasione dell’Europa da parte dei turisti americani. In un articolo della CNN, la European Tourism Organization parla di numeri in crescita rispetto al 2023, che pure era stato un anno record. Ne ha scritto di recente anche il Wall Street Journal, in un articolo in cui definisce i turisti statunitensi il nuovo “motore economico” del Vecchio Continente. È una storia che inizia, da un lato, da una romanticizzazione dell’Europa, avvenuta tramite i social network, in particolare sulla ricerca di una vita lenta, autentica, da parte di chi nel post-pandemia si scontrava con una certa crisi sociale ed economica del sogno americano. È una storia poi di prezzi bassi, almeno per gli stipendi americani (in media sopra i 60.000 dollari l’anno): cioè di una convenienza economica che ha spinto tanti degli Stati Uniti a considerare l’Europa un’alternativa preferibile ai “soliti” Messico e Caraibi.

È un circolo vizioso, oppure virtuoso, dipende da come la si vede. Alla base, c’è la disponibilità economica, che offre la possibilità di considerare quel luogo. Più quel luogo viene visitato, più diventa interessante e desiderabile sui social network, all’aumentare del numero delle persone che lo frequentano e lo raccontano sulle piattaforme. Del resto, i social network sono sempre più un canale di accesso al mondo, turismo compreso. E i viaggi sono questione di racconto: il desiderio e l’itinerario si costruiscono a distanza, a partire da racconti che oggi sono ovunque, contenuti che scorrono senza fine sui feed di ciascuno di noi.

Instagram vs Reality: come l’overtourism trasforma l’Italia in uno sfondo per selfie 

All’altra estremità del circolo, c’è la destinazione, che si adatta sempre di più ad attrarre turisti. E quindi cambia. Alza i prezzi, si disegna intorno all’accoglienza. È quello che è successo soprattutto ai centri di molte città italiane negli ultimi anni. Sono diventati, per lo più, spazi per turisti. E lo sono diventati con tutte le conseguenze del caso, a partire da un aumento generalizzato dei prezzi fino a una trasformazione dei luoghi, dai quali scompaiono, ad esempio, le attività per i residenti in favore di quelle per i turisti. In un recente articolo del Guardian, Angela Giuffrida racconta la storia delle Cinque Terre, che pure hanno subito negli ultimi anni un aumento sensibile di quelli che il quotidiano britannico definisce Insta-tourist. Nel pezzo, una delle soluzioni all’arrivo di troppi turisti nei soliti luoghi è aprire il resto della zona, pubblicizzare anche le località meno visitate. Il punto è che, così, tutto diventa turistico, nulla resta al sicuro. La soluzione è solo ancora più turismo, solo distribuito in modo diverso.

Il turismo è davvero il nostro petrolio?

Sono temi complessi, che spingono sempre più a mettere in discussione quello che negli anni è diventato un po’ un luogo comune. E cioè l’idea che attrarre turisti sia qualcosa di desiderabile in senso assoluto. Certo, è affascinante e suggestiva l’idea di poter vivere di turismo, che basti qualcosa che hai fatto in passato, la tua identità, per garantire benessere. Ma rischia di essere un’illusione. Lo stesso articolo del Wall Street Journal che ho citato in precedenza parla del turismo come di un settore che, pur garantendo una crescita a breve termine, ha un grande costo sociale per residenti e cittadini. Un’attività, inoltre, esposta a contingenze economiche, perché i turisti a un certo punto potrebbero smettere di arrivare, per ragioni indipendenti dall’offerta turistica. Ed è anche difficile da scalare: lo si voglia o no, si può accogliere solo fino a un certo numero di turisti. Che succede quando tutte le località sono piene?

C’è anche un altro aspetto, un po’ più ampio, da considerare. Lo scrive bene Janan Ganesh sul Financial Times, quando parla di turismo come di una sorta di felice stagnazione socioculturale. Un concetto solo apparentemente complesso, ma in realtà abbastanza chiaro tutte le volte che difendiamo in maniera scomposta le nostre tradizioni. Che, così, diventano qualcosa di cristallizzato nel tempo, identità da tenere al sicuro da qualunque ulteriore contaminazione, che è sempre stata alla base della costruzione di qualunque tradizione. Insomma, il problema del turismo, oltre a una serie di questioni economiche, è che se tutto resta uguale, e quell’uguale piace a qualcuno, che spende dei soldi per venire a fruirne, perché cambiare?

Fonte : Today