5 film horror davvero spaventosi ambientati nei boschi

La scelta dell’ambientazione, idilliaca o terrificante, può giocare un ruolo chiave nella riuscita di un film. Lo sa bene la famiglia Shyamalan che, da circa vent’anni, ha sempre posto una particolare attenzione alle location adatte a scuotere lo spettatore e generare inquietudine attraverso luoghi che non si limitano ad essere semplici fondali sui quali interagire ma diventano comprimari, veri e propri personaggi. E seguendo la lezione paterna, anche la figlia (qui il nostro speciale su chi è Ishana Night Shyamalan) ha scelto, nel recente esordio The Watchers (che tanto guarda al cinema del padre, nel bene e nel male), di concentrare le attenzioni su un unico ambiente, centro delle angosce di protagonisti e spettatori. Una foresta, selva oscura di dantesca memoria, popolata da sinistre creature, nella quale abbandonarsi fisicamente e moralmente.

In occasione dell’uscita nelle sale dell’esordio della giovane Shyamalan, si è scelto di selezionare 5 film – dai classici moderni e non, ai meno conosciuti, per bilanciare adeguatamente pop e nicchia – il cui locus principale ricorda quello di The Watchers: foreste, boschi, radure abbandonate, setting da brivido, non-luoghi che sfruttano appieno la potenza della natura e dell’ignoto per terrorizzare. Inevitabilmente e come sempre, non per valore ma per spazio – nonché per gusto, non meno importante – restano fuori nomi di rilievo come, tra i vari, Quella casa nel bosco e soprattutto, scelta dolorosa, The Blair Witch Project.

La casa

Possono le idee fare a meno del denaro? Da cosa iniziare se non da un cult senza tempo, che non solo ha lanciato la prolifica carriera del suo autore ma ha, come pochi titoli, forse nessuno, prima dall’allora, piantato saldamente nell’immaginario collettivo il topos cinematografico della casa nel bosco (la cosiddetta cabin in the wood), stilema narrativo, cliché, che ancora oggi non cessa di pulsare. La casa (Evil Dead), diretto nel 1981 da quel ventenne sconosciuto di nome Sam Raimi, è tra le opere di genere più importanti del suo tempo, un lavoro seminale e avanguardistico, emblema del cinema indipendente che trova il suo essere in una libertà d’espressione modernissima.

Distante anni luce dai canoni estetici del prestige o elevated horror, l’esordio del futuro regista della prima trilogia di Spider-Man ha delle intuizioni tecniche e delle invenzioni visive che faranno scuola, un senso del coinvolgimento e dell’azione possibile anche a fronte di una costruzione narrativa asciuttissima, elementare ma funzionale, pretesto per sbizzarrirsi e dar sfogo alla creatività.

La casa, dietro una messa in scena folgorante – quella tetra macchina da presa che “vola” in mezzo agli alberi per simulare una soggettiva diretta del male – gioca con le aspettative dello spettatore e le ribalta con il grottesco, capace di non intaccare mai l’orrore ma anzi quasi di rafforzarlo, che esploderà totalmente nell’umorismo sgangherato del secondo capitolo, più remake che sequel (qui la recensione de La casa – Il risveglio del male, ultimo capitolo di un franchise ormai orientato verso una diversa direzione, che ha dato alla luce sequel, remake, serie tv e persino videogiochi), e del terzo, L’armata delle tenebre.

Ancora oggi non esistono molti film come La casa, in grado di stupire genuinamente con “poco”, decostruendo e profanando, con l’esuberanza della possessione e la violenza del gore, un genere che fino a poco tempo prima aveva preso una leggera svolta socio-politica – vedasi, tra i tanti, Romero. Un genere che nel corso dei decenni è cambiato tanto e che vede nel primo capitolo della saga di Raimi non solo uno dei suoi vertici ma soprattutto una cesura importante, un momento di rottura e ridefinizione, senza il quale oggi il cinema, non solo quello horror e di serie B, sarebbe diverso.

November

In cosa crede un paese che, orgogliosamente, si professa in gran parte ateo? Il vuoto lasciato dalla religione e la conseguente compensazione col rituale pagano è solo uno dei temi centro di November, fantasy-horror diretto da Rainer Sarnet, proveniente dall’Estonia, paese non proprio centrale, anzi piuttosto periferico, in un’ideale mappa geografica del cinema. Una strana creatura filmica, dal taglio trasversale, che attraversa i generi e si poggia sul naturalismo per poi investirlo con un’atmosfera magica e oscura, sospesa e macabra, veicolata da quel sense of wonder che solo le favole (come insegna Guillermo del Toro, il cui cinema condivide non poche analogie con il film estone) possono evocare.

Amore e odio, romanticismo e crudeltà, realtà e fantasia: un’esile soggetto e una sorta di verismo contadino, tra miseria e disperazione, contaminati con il folklore, le mostruosità dei Kratt – creature demoniache nate, secondo le leggende, dal patto tra uomo e diavolo – e le personificazioni delle paure e delle epidemie, che popolano un contesto disumanizzato nel quale vince la furbizia, dove la magia e la stregoneria sembrano l’unico modo per sopravvivere e sfuggire all’oblio della sottomissione. Un buio nel quale anche le anime apparentemente pure non possono sfuggire alla crisi, nel quale la salvezza e l’amore, l’umanità e la felicità, sembrano concetti vietati, impossibili da raggiungere.

Un villaggio surreale e una natura minacciosa ritratta da una fotografia stratificata, che trasforma umani in spettri e dona ai luoghi un tono lugubre ma seducente: ragionamento raffinato sull’illuminazione e sulla resa visuale di un bianco e nero densissimo quello di November, vicino all’Haneke de Il nastro bianco o alle suggestioni di Hard to be a God (tra i 5 film di fantascienza che purtroppo hanno visto in pochi), che infonde una sensazione di struggente malinconia contrappuntata da una vibrante tensione.

Una favola avvolgente, ondeggiante tra onirico e quotidiano – orrore, melodramma, indagine etnografica e socio-antropologica – che proprio come molto dell’horror migliore racconta il suo contesto storico-culturale e geografico, la società che sta alle sue spalle, i suoi simboli e i paradossi che la animano.

Antichrist

Quindici anni fa Lars von Trier provava ad uscire da un periodo negativo grazie ad una delle sue opere più intense, ibride e complesse. Primo capitolo di quella che verrà definita come “trilogia della depressione” (insieme ai successivi Melancholia e Nymphomaniac), Antichrist è un progetto non sempre facile da intercettare, intimo e personale, un urlo liberatorio. Privo di risposte certe, i costanti interrogativi del film del 2009 mettono al centro del discorso l’atavico confronto uomo-donna, rappresentato simbolicamente da razionalità e istinto, cultura e natura, Adamo ed Eva: per farlo affonda lo sguardo sul dolore privato di una famiglia in lutto e tira fuori, verso l’esterno, l’orrore del malessere interno – certe sequenze cruente, dalla violenza esasperata, sfidano la visione ma non vanno incontro all’autocompiacimento.

Il regista danese parte da premesse drammaturgiche classiche e consolidate, una coppia che per un evento traumatico si rifugia in una casa isolata nella natura, per poi prendere tangenti imprevedibili e portare all’estremo i suoi personaggi (simbolicamente privi di identità e nome, nel tentativo di universalizzare il messaggio e le sue implicazioni) e farli scontrare ideologicamente e carnalmente.

Accusato di misoginia, è però tutt’altro: nel rifuggire dal semplicistico bene contro male o ragione contro torto, Antichrist sollecita enigmaticamente lo spettatore e mette in discussione le certezze che sembrava stabilire pochi secondi prima. Così Lei, una sontuosa Charlotte Gainsbourg, è prima vittima della Storia, della società e del controllo maschile e maschilista per poi cedere e diventare nemica, incontrollata e furiosa, devastatrice anche se martire.

Terzo elemento attivo della vicenda un bosco funereo, l’Eden (se non è chiaro così…), «chiesa di Satana», che non dimentica il passato e i suoi errori, ritratto come luogo a ambivalente, tra inferno e paradiso, agghiacciante ma catartico, nel quale non vigono le regole dell’esterno e «il caos regna», come esclamato dalla volpe/mendicante. Lì si può rinascere anche nella fine e sprofondare pur continuando a vivere. Forse sono gli istinti, quando viene messo da parte il razionale, a palesare chi o cosa si è davvero e proprio per questo quella natura suscita sentimenti così ambigui, attrazione e disgusto.

Kuroneko

Unico titolo orientale dei cinque, Kuroneko è uno dei lungometraggi più affascinanti del cinema giapponese della fine degli Anni Sessanta. Il film del 1968 si incastra alla perfezione, anticipandola per certi versi, nella tradizione di film di vendetta femminile nipponica – di qualche anno successivi sono Lady Snowblood e la saga di Female Prisoner Scorpion, influenti ispirazioni anche per Tarantino – ma si muove verso una maggiore rarefazione, ritmi compassati e un lirismo che lo fa somigliare ad un sogno corrotto.

Diretto da Kaneto Shindo (autore noto soprattutto per Onibaba), è una dolente e pessimistica storia di fantasmi, spiriti vampireschi, yokai della tradizione mitologica giapponese, anime strappate con ferocia alla vita, in cerca di vendetta contro una società che le ha piegate e dominate con la forza.

Perché Kuroneko, oltre che di mito e leggenda – lo stesso titolo, traducibile come “gatto nero”, rimanda alle credenze popolari legate agli animali e alla natura tutta – pone l’accento, in maniera semplice ma diretta ed efficace, sulla dimensione politica degli eventi, su una condizione disperata che lega a doppio filo questioni di genere e classi sociali in difficoltà, vessate ma lontane dagli sguardi e dalle attenzioni del potere (nell’articolo circa i 5 film sconosciuti sui samurai si era già accennata a questa attenzione dei cineasti giapponesi coevi, pur con spunti differenti).

Shindo, così come già in Onibaba, pone l’ambientazione naturale in primo piano ma la stilizza con rigore quasi ieratico – estetica e impianto comunicativo ne escono più armonizzati rispetto al manierismo, non solo formale, visto nel film del 1964 – senza però venir meno all’aura di misterio, con un bianco e nero espressionista contrastatissimo, profondo, in grado di inghiottire spettatori e ignari samurai. Così la foresta di bambù si carica di tragedia e diventa palcoscenico (e i richiami al teatro noh e kabuki non mancano) per il melodramma, la crudeltà e la vendetta. Lo spazio naturale si fa fortemente simbolico, ricolmo di ombre e presenze, limitato e tangibile ma allo stesso tempo astratto e al punto da apparire infinito, nel quale le figure che lo animano appaiono e scompaiono improvvisamente.

The VVitch

Pochi titoli hanno avuto nell’ultimo decennio un impatto e una risonanza, tra l’altro rapidissima, anche solo uguale a quella dell’esordio di Robert Eggers. The Witch (graficamente reso The VVitch) è presto diventato un caposaldo contemporaneo del genere, capace di dare alle sue immagini una forza immaginifica e un’eloquenza impressionanti, di settare standard estetici e narrativi per l’horror venuto dopo.

Non tanto un horror in senso comune, quanto un film che racconta l’orrore, nel quale per spaventare non servono facili sobbalzi o creature mostruose. Adattando alla modernità suggestioni principalmente dreyeriane, ansia e angoscia crescono mentre la famiglia protagonista inizia a farsi la guerra, a ingannarsi e disgregarsi, mentre le già precarie sicurezze vengono meno in un clima che si fa sempre più ostile. Si prende certo i suoi tempi ma lo fa con un equilibrio e un controllo formale e comunicativo esemplari, attraverso i quali nulla risulta mai fuori posto.

Eggers (ri)elabora e bilancia con coerenza temi biblici, ricostruzione storica filologica – non solo nei costumi o nelle scenografie ma anche nella rievocazione, come già il sottotitolo “A New-England Folktale” suggerisce, di vere e tradizionali superstizioni – oltre che questioni socio-politiche e di genere, con il giusto peso per ogni elemento. Per questo The VVitch funziona, quasi miracolosamente, tanto nel suo approccio simil-documentaristico quanto come racconto, fiction caricata di oscuro e fantastico, sul male: le due facce si scontrano e si incontrano, il concreto e l’irrazionale si abbracciano e ciò che ne esce fuori è qualcosa che supera i confini del genere primario, per contenuto ma soprattutto per forma.

C’è un lavoro sulla costruzione visuale e sulla secchezza sensoriale del montaggio che sembra venire da Kubrick e si fatica a pensarlo associato al cinema di un esordiente. Eggers mette però a fianco di questa maturità e perizia tecnica la ricerca del reale, donando così a quest’ultimo, per via di una certa dissonanza tra artificiale e naturale, l’elemento dell’assurdo e del surreale più di quanto non faccia il fantastico. Sempre protesi alla ricerca di qualcosa – Dio, salvezza, risposte sul senso e il destino umano – ma in un mondo ormai dominato dall’aberrazione, i protagonisti della vicenda non possono che perdere senno e speranze in una wilderness tutt’altro che benigna ma anzi incantatrice e malata. E lo spettatore non può che seguirli.

Fonte : Everyeye