Cosa cambia (per tutti) da domani con l’autonomia differenziata

Se la Lega è diventata, ormai da tempo, una forza sovranista di stampo nazionalista, l’approvazione della contestata legge sulla cosiddetta “Autonomia differenziata” ha già fatto felici non pochi leghisti della prima ora. Non è un caso che, a commuoversi ci sia anche lo stesso Calderoli.

La “madre di tutte le battaglie” del Carroccio, non è però una legge costituzionale, ma ordinaria. Ad aprire le porte all’autonomia ci fu, nel lontano 2001, il centrosinistra con la riforma Bassanini che modificò il Titolo V della Costituzione. Fu una riforma copernicana perché, da quella data, a essere ribaltato fu il rapporto tra Stato Centrale e Autonomie Locali. Da quel momento in poi in Costituzione vengono elencate le competenze specifiche dello Stato e definite le materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Tutto ciò che non è espressamente ad appannaggio della facoltà legislativa nazionale, diventa di ambito regionale.

E gli ambiti di legislazione concorrente sono molteplici. Citiamo per brevità quelli che riguardano la vita quotidiana di tutti noi come: sanità, istruzione, lavoro, rapporti internazionali e con la Ue, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario

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Le conseguenze? Non sono state indolore. Solo per rimanere in ambito sanitario, basta vedere al disavanzo registrato da molte regioni italiane (in prevalenza del Sud) durante questi anni e i relativi piani di rientro statali. Una dinamica che ha inciso, non poco, sulle casse pubbliche e sulla qualità delle cure. L’autonomia differenziata, approvata oggi, accelera su questa dinamica individuando maggiori aree di autonomia per le regioni a statuto ordinario. 

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La legge si compone di 11 articoli in cui vengono indicate le procedure legislative e amministrative per l’applicazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione: ovvero quella che regola la concessione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Gli ambiti sono ventitré, citiamo per comodità i più importanti come: tutela della salute, istruzione, sport, ambiente, energia, trasporti, cultura e commercio estero. 

In tutte queste materie le singole regioni potranno chiedere maggiore autonomia allo Stato Centrale. Ne segue una negoziazione che è subordinata però a uno strumento chiamato “Lep”. Per Lep si intende, livelli essenziali di prestazione, ovvero il minimo che lo Stato è tenuto a garantire su tutto il territorio nazionale. Sono l’evoluzione dei famosi “Lea”, i livelli elementari di assistenza da erogare in ambito sanitario, che vengono puntualmente disattesi da molte regioni, soprattutto nel Meridione, come si può intuire nella mappa sotto. 

Per vedere la riforma pienamente operativa si potrà aspettare fino a 24 mesi, ovvero due anni. È il tempo massimo nel quale vanno stabiliti i Lep su scala nazionale. Senza la loro definizione e il loro finanziamento le autonomie non potranno essere concesse, lo prevede un emendamento al testo promosso da Fratelli D’Italia.

I problemi però sono due. Il primo: secondo la riforma questi livelli verranno stabiliti tramite Dpcm governativi sulla base delle valutazioni di una commissione tecnica. E in quanto atti amministrativi potranno essere impugnati di fronte al Tar e non davanti alla Corte Costituzionale. In secondo luogo non si capisce come questi “Lep” verranno finanziati. Si sa solo che non può essere creato deficit aggiuntivo per le finanze pubbliche. Tradotto: per finanziarli o si taglia sulla spesa pubblica o si aumentano le tasse ai cittadini. E con il nuovo “Patto di Stabilità” gli orizzonti non sembrano sereni. 

Il debito pubblico italiano rischia di scoppiare

Il secondo punto è invece come verrà attivamente realizzata la riforma. La risposta è semplice: l’autonomia differenziata prevede infatti la possibilità, da parte delle Regioni, di trattenere parte del gettito fiscale generato sul territorio per il finanziamento dei servizi e delle funzioni di cui si chiede il trasferimento. Non occorre essere degli economisti per prevedere un’Italia ancora più spaccata tra Nord e Sud e tra regioni più ricche e più povere. Un aspetto che ricalca, di molto, il famoso “federalismo fiscale” invocato dalla vecchia Lega Nord. 

Cosa potrebbe cambiare domani per un cittadino del Sud e uno del Nord 

Rimanendo solo nell’ambito sanitario, infatti, un domani le regioni potrebbero correre a velocità molto differente. Salari e contratti del personale potrebbero essere demandati alle singole realtà locali. Trattamenti salariali differenziati per quanto riguarda il personale medico e sanitario a livello regionale si tradurranno così molto probabilmente nella migrazione dei professionisti verso le aziende sanitarie che offrono i migliori stipendi. La gestione regionale dei contratti potrebbe comportare invece un’accelerazione sulle collaborazioni a partita Iva, ad esempio, svuotando il gettito fiscale generale. A rischio c’è ovviamente la contrattazione collettiva nazionale in favore di una territoriale ad hoc che potrebbe favorire le aree più ricche. Tutto questo in un Paese che sperimenta tutt’ora un tasso record di migrazione sanitaria.

(La quantità di soldi entrate o uscite dalle casse delle singole regioni per far curare i propri pazienti al di fuori dei confini regionali od ospitarne altri provenienti da altre Regioni. Se non visualizzi il grafico clicca qui) 

Ma le disuguaglianze potrebbero farsi sentire anche in uno degli aspetti più cruciali per il futuro di una nazione: la scuola. “Il nostro diventerà un Paese a 20 velocità sull’istruzione, con l’aumento delle disuguaglianze territoriali anche all’interno della stessa Regione” è il commento secco della Flc Cgil. Un domani le regioni potranno infatti avere anche l’esclusiva sul reclutamento del personale docente, sull’autonomia scolastica, sugli orari e su molti altri aspetti organizzativi e didattici. 

Fuga dal Sud per curarsi: “Con l’autonomia differenziata andrà sempre peggio”

E un grido di allarme è anche quello lanciato, lo scorso anno da Bankitalia con una relazione inviata al Senato. Per gli economisti di via Nazionale con questa riforma lo Stato perderebbe inoltre il controllo di una parte rilevante della spesa pubblica con il compito, tra gli altri, di dover intervenire, più di quanto faccia ora, in caso di dissesto delle finanze regionali. Non solo: la riforma abbasserebbe anche uno dei talloni d’Achille della nostra economia, vale a dire la produttività.

Cosa prevede il disegno di legge sull’Autonomia (e perché l’opposizione è sul piede di guerra)

Il decentramento dei servizi andrebbe in direzione opposta del risparmio realizzabile utilizzando grandi centri per una questione di quella che in economia viene definita “Economia di scala”. Con questo termine  si intende relazione esistente tra aumento della scala di produzione (di un’impresa, di un’unità produttiva o di un impianto) e la diminuzione del costo unitario del prodotto. Per fare un esempio comprensibile a tutti: uno stesso servizio sanitario potrebbe utilizzare la stessa piattaforma informatica e lo stesso servizio contabile o rivolgersi agli stessi produttori di beni per abbattere i costi. Le cose sono molto più complicate quando i centri sono frammentati e non coordinati tra di loro a livello nazionale. Il rischio è quindi quello di avere dei servizi più costosi e qualitativamente “meno efficienti”, specialmente nelle regioni più povere del Paese. Che rimangono, a oggi, le più penalizzate dalla riforma targata centrodestra. 

Fonte : Today