Il 28 giugno il Paese alle urne per il successore di Raisi, morto il 19 maggio in un incidente col suo elicottero. In lizza sei nominativi, cinque dei quali esponenti dell’ala ultra-conservatrice. L’hijab fra i temi della campagna elettorale, perché nessuno dei candidati ha una vera ricetta per l’economica in crisi. Rischio astensionismo. Prosegue la campagna di repressione, nel mirino anche i cristiani.
Milano (AsiaNews) – Alle elezioni presidenziali del 28 giugno, in vista delle quali le autorità di Teheran hanno imposto una ulteriore stretta con esecuzioni e arresti che non risparmia nemmeno i cristiani, per gli esperti si gioca una partita a tre fra i candidati più accreditati: essi sono il presidente del Parlamento (Majles) Mohammad Bagher Ghalibaf, l’ex negoziatore per il nucleare Saeed Jalili e il deputato Massoud Pezeshkian. I primi due sono esponenti dell’ala ultra-conservatrice legata alla guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, al quale assicurano cieca obbedienza, mentre il terzo proviene dall’ala riformista e vuole giocare il ruolo di “outsider”. Uno di questi tre, con tutta probabilità, succederà a Ebrahim Raisi morto lo scorso 19 maggio nello schianto del suo elicottero in circostante non del tutto chiarite, sebbene prevalga l’ipotesi di un guasto ad un velivolo di lungo corso e con scarsa manutenzione.
Analisti e osservatori ritengono già fuori dalla partita presidenziale altri tre candidati anch’essi ultra-conservatori: Amir Hossein Ghazizadeh Hashemi, il sindaco di Teheran Alireza Zakani e l’ex ministro della Giustizia Mostafa Pourmohammadi. Nei giorni scorsi il Consiglio dei Guardiani della Costituzione – che anche per questa tornata elettorale ha ammesso soli candidati uomini – ha respinto l’ennesimo tentativo di ritorno dell’ex presidente Mahmud Ahmadinejad. Fuori dai giochi anche Ali Larijani, tre volte presidente del Parlamento con background religioso e conservatore. La bocciatura mostra quanto siano marginali le possibilità di scelta ad eccezione dei rappresentanti della fazione radicale ed estremista legata alla guida suprema, tanto che il vero vincitore dovrebbe essere anche stavolta il partito dell’astensionismo.
Fra hijab e voto
Con una tale scelta – e solo sei ammessi su 80 – è improbabile che le elezioni genereranno troppo interesse per gli iraniani in una partita già decisa da Khamenei. Alle scorse elezioni del 2021, che avevano segnato l’ascesa di Raisi, il Consiglio aveva approvato solo sette nomi su oltre 500 candidature, ma al momento del voto altri tre si erano ritirati presentando solo quattro nomi sulle schede. Il parlamentare ultraconservatore Amir Hossein Sabeti ha diffuso i risultati di un sondaggio di un’agenzia governativa – i rilevamenti sono appannaggio dello Stato e spesso coperti da segreto – secondo cui Jalili avrebbe il 23% dei consensi, mentre il rivale Ghalibaf il 21% e Pezeshkian il 13%. Ben più alto il dato sull’astensionismo: un sondaggio “artigianale” della giornalista Maryam Shokrani sui social mostra che l’88% dei rispondenti su Instagram (su 3374 voti) e il 73,99% su X (a fronte di 6433 profili) non intendono recarsi alle urne. Un rilevamento simbolico, ma che conferma il disinteresse degli iraniani per il voto mentre il governo arresta giornalisti ed esercita pressioni sui media perché raccontino di una elezione partecipata, pur bloccando articoli o editoriali in cui emerge il principio della concorrenza o il sostegno di un singolo. Al riguardo, anche i Pasdaran avrebbero espresso – almeno sulla carta – una posizione di neutralità.
Uno dei temi al centro del dibattito, non potendo approfondire le questioni economiche perché nessuno ha un programma definito per cercare di contrastare la crisi legata (anche) alle sanzioni occidentali per il programma atomico, è stato quello dell’hijab: per Saeed Jalili è un vantaggio sociale e va difeso con vigore, perché “l’abbigliamento femminile è parte della loro sicurezza e di una loro presenza tranquilla in società”; Amirhossein Ghazizadeh Hashemi sostiene anch’egli le norme sul velo obbligatorio; l’ex ministro degli Interni Mostafa Pourmohammadi ribadisce “l’importanza del rispetto della legge”; Alireza Zakani ha esposto cartelli e striscioni a Teheran sull’hijab, che definisce un “dovere morale, legale e religioso”; per il presidente del Parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf le leggi sul velo sono un “successo significativo” del suo mandato; unica voce fuori dal coro quella di Masoud Pezeshkian, che esalta il ruolo della donna e la libertà di scelta, oltre a una minore presenza della polizia della morale.
Jalili è visto da molti come un noioso ideologo islamista della linea dura, senza alcuna esperienza esecutiva. Il favorito sembrerebbe il 62enne Qalibaf, con stretti legami con i Pasdaran ed elogiato – seppur senza menzionarlo – in un discorso pubblico la scorsa settimana da Khamenei. Tuttavia, molti ricordano ricordano come da generale dei Guardiani abbia partecipato alla violenta repressione degli universitari nel 1999 e avrebbe ordinato di aprire il fuoco contro gli studenti nel 2003. Eccezione agli integralisti è Pezeshkian, deputato di Tabriz: relativamente moderato, ha poche possibilità di vincere se l’affluenza alle urne sarà molto bassa, ma potrebbe conquistare i voti di molti elettori altrimenti riluttanti che vogliono sfidare gli integralisti.
Carcere ed esecuzioni
Le settimane precedenti il voto sono state caratterizzate da una ondata di repressione fatta di esecuzioni e condanne, una pratica consolidata nella Repubblica islamica dove l’islam (sciita) è religione di Stato. Perché, a dispetto del tentativo di dare una patina di legittimità al processo elettorale, gli ayatollah sembrano più preoccupati di sedare possibili proteste o arginare spaccature fra le fazioni. Solo nell’ultimo periodo otto prigionieri sono stati giustiziati per vari reati, mentre i giudici continuano a usare la pena capitale come strumento coercitivo: fra quanti potrebbero nelle mani del boia vi è il religioso sunnita e prigioniero politico Mohammad Khezrnejad, condannato a morte per “coinvolgimento” nelle proteste del 2022, innescate dall’uccisione della 22enne curda Mahsa Amini per mano della polizia della morale perché non indossava correttamente l’hijab.
I dati aggiornati di Human Rights Council riferiscono che l’Iran è responsabile del 75% delle esecuzioni globali, primo al mondo fra le nazioni che forniscono statistiche ufficiali perché Cina, Vietnam e Corea del Nord oppongono il segreto di Stato. In risposta, i detenuti di alcune carceri hanno promosso uno sciopero della fame ogni martedì degli ultimi cinque mesi. Del resto sono i numeri a confermare l’escalation: secondo Amnesty International, la Repubblica islamica ha raggiunto il picco di esecuzioni degli ultimi otto anni, giustiziando 853 persone nel 2023. Il rapporto indica che 481 esecuzioni, oltre la metà, erano legate a reati di droga con un aumento dell’89% sul 2022 quando sono state 255 le persone al patibolo per narcotraffico o tossicodipendenza. E una crescita del 264% rispetto al 2021, quando sono stati 132 i giustiziati.
(Anche) i cristiani nel mirino
Il vasto ricorso al boia non è l’unico elemento di criticità in un quadro di crescente frattura fra leadership teocratica e universo giovanile (e universitari), che rivendica con insistenza diritti e libertà. Una repressione che colpisce anche i cristiani, come mostra la vicenda dell’armeno Hakop Gochumyan in cella dall’estate e condannato di recente a 10 anni di carcere. Il 35enne è stato condannato per “attività di proselitismo” definito “deviante”, che “contraddice la sacra legge dell’islam” e per appartenenza e leadership di “una rete di cristianesimo evangelico”. In realtà, il tribunale si è basato sul possesso di sette volumi del Vangelo in farsi e sulla visita compiuta a due chiese armene e a una chiesa domestica mentre si trovava in vacanza in Iran. Inoltre ha fatto ampio ricorso all’articolo 160 del Codice penale, che consente ai giudici di usare il loro “intuito personale” in mancanza di prove. A comminare il verdetto è stato il magistrato Iman Afshari della Corte rivoluzionaria di Teheran, che sta guadagnando fama come persecutore di cristiani: oltre al giovane armeno, altri tre hanno ricevuto condanne a 10 anni; un imputato ha ricevuto una pena a due anni; a cinque è stato vietato di lasciare l’Iran e di vivere a Teheran per due anni; tutti e dieci sono stati multati per 8mila dollari e privati di diritti di base come l’appartenenza a gruppi politici o sociali.
E ancora, un cristiano iraniano convertito dall’islam e in carcere da mesi è stato condannato il 28 maggio dal tribunale di Ahvaz, nell’ovest, a cinque anni di prigione per aver agito “contro la sicurezza nazionale” comunicando con “organizzazioni ‘sioniste’ cristiane”. Il 37enne Esmaeil Narimanpour era già stato costretto a corsi di “rieducazione” religiosa ed è parte di un gruppo di 50 persone incarcerate durante le feste di Natale. La sua casa a Dezful, 150 km a nord di Ahvaz, è stata perquisita e i libri legati alla religione cristiana confiscati, anche se gli agenti non avevano alcun mandato di perquisizione. Egli è stato trasferito in un centro di detenzione del ministero dell’Intelligence di Ahvaz, dove ha trascorso 18 giorni prima di essere rinchiuso a Shiban.
Infine, la scorsa settimana è giunta conferma dell’arresto del convertito Farrokh Kakaei detenuto in una località segreta, con grande preoccupazione della moglie e delle due figlie che non hanno notizie del 55enne dal 26 maggio, giorno del fermo. Quattro uomini dell’Intelligence in borghese lo hanno prelevato dalla sua abitazione senza accuse formali e sequestrando immagini di Gesù, il computer, telefono cellulare e una memoria esterna. Come lui, almeno 14 cristiani iraniani sono stati arrestati quest’anno, ma la maggior parte delle vicende resta avvolta dal segreto. Secondo dati aggiornati di Article18, sito specializzato nel documentare le repressioni in atto contro le minoranze religiose, sempre nel 2024 si sono registrate già 15 condanne di cristiani al carcere per reati legati alla fede; di questi, almeno sette hanno già iniziato a scontare la pena e una dozzina di altri saranno processati entro fine mese, tutti con accuse legate alla pratica pacifica della fede mascherate da crimini contro la “sicurezza nazionale”.
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Fonte : Asia