Cosa faranno i partiti italiani in Europa

Gli italiani sono chiamati a votare alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. È una consultazione molto importante perché i nuovi equilibri che usciranno dalle urne degli Stati membri decideranno la linea politica della prossima Commissione Ue su questioni fondamentali come la transizione ecologica e il nuovo Patto di Stabilità. I partiti italiani, come sempre in questi casi, hanno trattato l’argomento come un’elezione di metà mandato, ovvero come una sorta di sondaggio sul governo Meloni, lasciando l’Europa in sottofondo o utilizzandola come elemento divisivo in contrapposizione con gli interessi degli italiani.  

Immigrazione, il rebus dei ricollocamenti

In questi anni si è molto parlato di immigrazione e i politici nostrani hanno spesso lamentato l’assenza dell’Europa rispetto a quella che per i partiti del centrodestra, specialmente Lega e Fratelli d’Italia, è un’emergenza nazionale. In realtà, dal grafico elaborato da Today.it sui dati Unhcr, i numeri reali mostrano due evidenze: la prima è che – tolto il boom del 2015, con l’esplosione della cosiddetta “rotta balcanica” a causa dell’esodo siriano – il flusso si è stabilizzato su numeri abbastanza contenuti, con una risalita nel 2023, in concomitanza col primo anno di governo Meloni.

Cosa vuole fare l’Ue per l’immigrazione 

La seconda evidenza è che l’Italia non è la meta finale degli arrivi, ma il luogo di approdo di uomini, donne e bambini che poi si vanno a stabilire in altri Paesi. Nel 2023 la Germania ha ricevuto 329 mila richieste d’asilo, la Spagna 160 mila, la Francia 145 mila e l’Italia 130 mila, molti meno dei 500 mila regolari previsti dal decreto Flussi varato dal governo in carica. Altro dato utile per spiegare le dimensioni del fenomeno è quello sulla percentuale di immigrati nella popolazione residente: in Italia è il 6,4 per cento, in Spagna e Germania il 9,1 per cento, in Austria il 9,3 per cento.

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Quanto al ruolo dell’Europa e alla sua presunta “assenza”, fanno fede i trattati in vigore. Quello di Dublino, più volte evocato, che lega il migrante al Paese europeo di primo approdo, ha una storia molto lunga. Figlio della Convenzione nata nel 1990 ai tempi dell’ultimo governo Andreotti, è stato ratificato nel 2003 dal governo Berlusconi e ribadito in ultima stesura dal governo Letta (Dublino III). In tutti i programmi dei partiti, soprattutto in quelli del centrosinistra, si promette una sua modifica, ma la possibilità di mettervi mano non dipenderà tanto da come andranno le elezioni in Italia, ma da quelli che saranno i nuovi equilibri che si andranno a consolidare dopo le urne. I Paesi del cosiddetto “blocco di Visegrad” (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), dove le forze conservatrici e nazionaliste sono molto forti, non hanno interesse ad aprire le loro frontiere all’accoglienza e non sono minimamente interessati a partecipare in modo attivo ai ricollocamenti. 

Il controverso passaggio all’auto elettrica

Il passaggio a una mobilità sostenibile è uno dei temi che saranno più discussi nel prossimo Parlamento Europeo. Con le attuali regole, che però molti partiti – soprattutto di centrodestra – puntano a cambiare, dal 2035, in tutti i 27 Paesi dell’Unione, non sarà più possibile immatricolare auto con motore a combustione, salvo più che probabili deroghe. Secondo i dati Eurostat, i mezzi con motore a combustione rappresentano circa il 16 per cento dell’inquinamento da anidride carbonica e di questi il 60 per cento sono le auto private. 

Cosa vuole fare l’Ue con le nostre auto

L’Europa spinge per il passaggio alle auto elettriche, ma non tutti i Paesi dell’Unione viaggiano alla stessa velocità. In Italia, dove le destre hanno messo “la difesa delle auto” il passaggio ai mezzi a zero emissioni procede a rilento principalmente per due motivi: il costo elevato delle nuove autovetture e il ritardo sulle infrastrutture (colonnine per la ricarica nelle città e nelle autostrade). Come abbiamo messo in evidenza in questo grafico in Italia la transizione all’elettrico è ancora molto indietro.

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Nel Parlamento Europeo, le posizioni sono variegate e trasversali assai più che in Italia. Di base i partiti conservatori puntano a mandare per le lunghe la transizione green, puntando sugli e-fuel, i combustibili sintetici che non contengono alcun prodotto derivato da fonti fossili come il petrolio, che però hanno costi di produzione elevati e non azzerano del tutto le emissioni di anidride carbonica. I socialisti e i verdi (che nei paesi del Nord Europa sono molto forti), puntano invece sull’elettrico e chiedono a Bruxelles di mettere in campo ingenti incentivi per permettere ai cittadini di passare all’auto elettrica e agli Stati di attrezzarsi per migliorare le infrastrutture. Come già detto, però, la divisione è trasversale anche alle stesse famiglie politiche, basti pensare che i verdi tedeschi, che sono nella coalizione di governo in Germania, hanno chiesto di spostare al 2040 il termine per lo stop ai motori a combustione. Altro tema di scontro è la dipendenza dalla Cina, primo produttore mondiale di batterie al litio, che di fatto finirebbe per controllare il mercato dell’automotive a livello mondiale. Chi contesta questo punto di vista, ricorda che attualmente il settore dipende da Russia e Arabia Saudita, non certo democrazie illuminate e primi esportatori di petrolio.

Le case green, un efficientamento molto costoso

Altro terreno di scontro è quello della casa. La direttiva europea denominata “Case green” impone l’efficientamento energetico entro il 2050. Si parla di decine di milioni di edifici e l’Italia, che ha un patrimonio immobiliare molto vecchio, è tra i Paesi più esposti. Le nostre case inquinano molto, ma va sottolineato che gli edifici dei centri storici saranno esclusi dall’applicazione della direttiva. Altra evidenza, è che l’efficientamento energetico, una volta completato, oltre ai benefici ambientali porterà a un risparmio di circa il 40 per cento sul prezzo delle bollette.

Anche su questo tema i due principali schieramenti sono divisi, sia in Italia che in Europa. Le destre gridano alla “difesa della casa” opponendosi con forza alla direttiva, mentre i progressisti e i verdi, che sono i promotori, puntano a far erogare almeno 100 miliardi di euro di incentivi per sgravare i cittadini dall’ingente spesa. Una sorta di “superbonus europeo”.

Stipendi e welfare, l’Italia è indietro

L’Italia, non è una novità, è fanalino di coda in Europa sui salari e su tutta un’altra serie di indicatori che determinano la qualità del lavoro. I dati che abbiamo raccolto mostrano chiaramente che gli stipendi medi in Italia sono calati rispetto al 1991, Nel nostro Paese quasi il 40 per cento dei lavoratori guadagna meno di 15mila euro all’anno. Parliamo quindi in prevalenza di occupazione povera, a tempo parziale e poco qualificata. E poi c’è il cosiddetto part-time involontario che coinvolge in Italia invece oltre la metà degli occupati part-time a differenza del 19,7 per cento europeo.

Cosa vuol fare l’Ue per i nostri stipendi

A livello di politica nazionale, sulle ricette per contrastare il “lavoro povero” gli schieramenti sono nettamente divisi. Le opposizioni al governo Meloni chiedono quasi all’unisono un salario minimo fissato a 9 euro l’ora, mentre i partiti che compongono la maggioranza, forti di una relazione del Cnel attualmente guidato dall’ex ministro Renato Brunetta, non ne vogliono sapere e percorrono la strada della contrattazione (a loro dire più redditizia per i lavoratori) e degli sgravi fiscali alle imprese che assumono.

Una manifestazione a Bologna contro gli incidenti sul lavoro (Michele Nucci-LaPresse)

Paradossalmente, in sede europea le posizioni sono meno nette, perché il nemico comune di tutti i partiti italiani – di destra e di sinistra – sono i vincoli di bilancio imposti ai Paesi con il Patto di Stabilità, che limitano di molto le possibilità di manovra dei governi di ogni colore in sede di manovra finanziaria. La zavorra dell’Italia è il debito pubblico (123 per cento del Pil nel 2023) e ha reso sempre complicata ogni contrattazione dei nostri ministri dell’Economia in sede Ue. E se le destre chiedono di svincolare le politiche economiche ai vincoli Ue, le sinistre chiedono all’Europa di intervenire direttamente per rilanciare il lavoro. La più netta delle proposte in tal senso arriva dal Pd di Elly Schlein, che arriva a chiedere 500 miliardi all’Europa per accompagnare la transizione green delle imprese.

L’inverno demografico

Una delle emergenze che si trova ad affrontare l’Europa è il calo delle nascite nei Paesi membri. Un fenomeno che dipende in parte da ragioni culturali (le famiglie tendono ad essere meno numerose) e in parte dal peggioramento delle condizioni di vita delle persone. L’Italia è tra i Paesi con il tasso di fertilità tra i più bassi del continente, con una media di 1,24 figli per donna, contro l’1,79 della Francia, il Paese europeo in cui si fanno più figli. Nel 2023, nel Belpaese, i nuovi nati sono stati appena 118 mila, toccando un nuovo record negativo. 

Cosa vuol fare l’Ue per farci fare più figli

Tra le cause del tracollo, la scarsa occupazione femminile e un welfare al palo, che non riesce a offrire servizi adeguati come gli asili nido. I partiti italiani, per contrastare l’inverno demografico, si dividono in due tipologie di proposte: le destre hanno messo in campo dei bonus alle madri con contratti stabili che partoriscono più di due figli, a patto che percepiscano un reddito molto basso e di fatto tenendo fuori dalla platea le famiglie non numerose e le lavoratrici autonome. I partiti del centrosinistra propongono invece forti investimenti sul welfare, per consentire alle famiglie di spendere molto meno nei servizi per la prima infanzia ma anche su libri scolastici e altro. Sul versante europeo, Fratelli d’Italia chiede di indirizzare gran parte del bilancio dell’Unione al supporto delle famiglie, mentre le opposizioni spingono per congedi parentali e per un Mes per finazare le risorse demografiche (la proposta è di Azione di Carlo Calenda).

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Fonte : Today