Da più trent’anni l’Italia ha un problema. Il nostro Paese è infatti una vera e propria eccezione in Europa (e nel mondo occidentale) per il tema dei salari. Quelli italiani non crescono da trent’anni. Parliamo di un periodo lungo, certo, inframezzato da una crisi economica epocale e una pandemia. Ma il rapporto con gli altri Paesi europei è abbastanza impietoso.
Per accorgersene basta vedere i dati Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Al netto del reale potere d’acquisto, gli stipendi dei lavoratori dipendenti italiani sono calati rispetto al 1991. Una dinamica che non si osserva nemmeno nella Grecia interessata da 12 anni di riforme strutturali coordinate con la Troika per superare la crisi del debito sovrano. E se il governo attuale rivendica successi sul piano del mercato del lavoro, non possono passare inosservati alcuni dati. Il primo: in Italia quasi il 40% dei lavoratori guadagna meno di 15mila euro all’anno. Parliamo quindi in prevalenza di occupazione povere, a tempo parziale e poco qualificate.
Il secondo dato è infatti dimostrato dalla prevalenza del cosiddetto part-time involontario. Se la media dei lavoratori a “tempo parziale” è in linea con quella europea, non lo è di certo la quota di chi non può scegliere ed è costretto al cosiddetto “part time involontario”. In Europa sono appena il 19,7%, in Italia invece oltre la metà degli occupati part-time (56,7%) sono involontari. Tradotto: sono persone che vorrebbero un impiego e una retribuzione full time, ma si trovano a svolgere un’occupazione part-time e percepire stipendi molto bassi. E in larga prevalenza sono donne.
C’è infine, il tema del largo uso di ore lavorate dai lavoratori dipendenti italiani che superano di gran lunga quelle dei loro colleghi europei. Ancora una volta il dato è evidente guardando il dato Ocse relativo alle ore lavorate in un anno.
I lavoratori greci e italiani (parliamo di full-time) lavorano molto di più di quelli tedeschi e francesi ma guadagnano e, molto probabilmente, producono molto meno. Il che porta a un altro grande male oscuro italiano: la produttività. Negli ultimi vent’anni è cresciuta meno rispetto agli altri Paesi europei in quasi tutti i settori: dall’industria alle costruzioni fino ai servizi. E i profitti degli imprenditori vengono generati abbassando sistematicamente il costo del lavoro.
Le ricette per uscire da questo stallo sono variegate, a partire dal salario minimo di cui parleremo in un altro articolo (qui – link pezzo Cesare). Ma tutte sembrano non poter prescindere dalla possibilità di poter investire risorse: una dinamica resa oggi più complicata dal patto di stabilità che, con il record del nostro debito pubblico (137,3% del Pil nel 2023), lascia in molti più di una perplessità.
Lavoro e investimenti: le posizioni dei diversi schieramenti politici
Per Fratelli D’Italia la ricetta è quella di “incentivare l’occupazione e la competitività nell’Unione, semplificando le procedure, riducendo la burocrazia e le limitazioni imposte dall’Europa”. L’obiettivo è quindi quello di favorire le micro imprese: “Limitando il peso amministrativo e burocratico derivante dalle normative Ue”.
Forza Italia chiede invece un fisco armonizzato per essere più “favorevole alle imprese”, favorendo così indirettamente anche i salari dei lavoratori, mentre si profila un meccanismo per distribuire il debito pubblico fra i vari Paesi membri.
La Lega chiede invece la fine dell’austerità, ma vuole lasciare le leve fiscali nelle mani dei singoli Stati nazionali. Secondo il Carroccio anche la missione della Banca centrale europea deve cambiare e non garantire solo la stabilità dei prezzi, ma anche la crescita economica e la piena occupazione.
Il Pd parla invece più espressamente di “superamento dell’Austerity” con regole di bilancio che guardino primariamente agli investimenti comuni. Non solo: è previsto anche un “Industrial act per sostenere l’impresa europea nelle grandi transizioni dei prossimi anni”, mentre si punta anche su un fondo di 10 miliardi di euro per la “sovranità tecnologica”. C’è la volontà infine, di rivedere i principi di tassazione per abolire i cosiddetti “paradisi fiscali”.
Un punto ripreso dal programma del Movimento 5stelle, che vuole anche “estendere la capacità della Ue” di investire in modo permanente e si oppone fermamente alle politiche di austerity, leggi patto di stabilità.
Il programma elettorale di Avs (Alleanza Verdi e Sinistra) si oppone decisamente all’austerità ed è per l’introduzione di una fiscalità sostenibile, equa e progressiva a livello comunitario. Non solo: il programma prevede anche una sorta di “patrimoniale” sugli ultra ricchi e una rivoluzione copernicana della Bce che dovrebbe diventare una sorta di prestatore di ultima istanza.
Il programma di Azione chiede invece di “vietare temporaneamente acquisizioni di imprese europee che operano in ambiti strategici da parte di imprese statali extraeuropee” e di un fondo europeo per finanziare le nuove filiere produttive: una sorta di piano “Industria 4.0 europeo”.
Stati Uniti d’Europa, infine, punta su maggiori investimenti per la crescita attraverso la creazione di debito comune e una vera unione fiscale fra i Paesi europei. Per consultare tutti i programmi dei partiti politici alle europee 2024 potete cliccare qui.
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Fonte : Today