Piero Pelù: “Canto il mio disagio. Non c’è futuro senza pace ed ecologia”

Parlare con Piero Pelù, 62 anni da rockstar e un nuovo disco, questo Deserti, uscito dopo un anno a guarire dallo shock acustico che ha subito in studio e a due dallo scioglimento della sua band storica, i Litfiba, significa parlare con una specie di oracolo. D’altronde, ne ha vissute di ogni: gli inizi nell’underground, la gavetta lunghissima, le due vite soliste e nel gruppo, i giri sulla giostra, il non essersi mai tirato indietro politicamente, l’aver inseguito o disatteso le mode, e la fama in generale di “buono” che ama mettersi di traverso. Lo ripete anche qui, quando lascia intendere che quest’album, che segna una rinascita dopo tempi difficili “per me e il mondo”, porta avanti una sorta di contro-narrazione: “L’unico messaggio”, spiega, “è la pace”, raccontando come nella tracklist ritorni una versione inedita di Il mio nome è mai più, il pezzo “contro tutte le guerre” che nel 1999 aveva cantato con Jovanotti e Ligabue per raccogliere fondi per Emergency, forse più urgente oggi che allora.

Cambia tutto per non cambiare niente, viene da dire.

“Di me, però, il cambiamento ha sempre fatto parte, specie per quanto riguarda la musica. Ho fatto dischi, da solista e con i Litfiba, che hanno venduto milioni di copie, eppure non ho mai fatto la loro ‘seconda stagione’. Era e resta questione di onestà intellettuale”.

Ma è difficile? Nel senso: ci sono fan che ti vorrebbero sempre uguale, si affezionano a certi suoni più che ad altri.

“È difficilissimo. Ma io non mi sono tirato indietro, mi sono sempre evoluto, anche se poi ho diviso i miei dischi in trilogie, tetralogie e il resto”.

Oggi Piero Pelù è un sopravvissuto?

“No, quello lo ero a inizio anni zero, appena uscito dai Litfiba. Infatti i miei primi tre album solisti compongono proprio la trilogia dei sopravvissuti. Ora sono a disagio, semmai. E Deserti racconta questo. Non ne sono felice, ma neanche disperato: lo accetto, ci combatto, cerco di trasformarlo in energie positive con la musica”.

È strano, di solito il disagio passa con l’età.

“Nel mio caso, è un disagio figlio degli eventi e dei tempi. Un disagio interiore, perché l’incidente ha giocato la sua parte. E un disagio per ciò che ho intorno, visto che siamo nei tempi peggiori da ottant’anni a oggi. Dittatori, violenze, multinazionali della guerra e dei combustibili fossili che la fanno da padrona: c’è di tutto. E il rischio nucleare è dietro l’angolo, a causa di personaggi come Netanyahu e affini. Bisogna lavorare sulla cultura della pace, e non è retorica dirlo. Hanno tutti torto marcio, politica internazionale e diplomazie hanno sbagliato tutto in questi decenni, mentre la classe politica si è in linea di massima imbarbarita”.

A proposito di Il mio nome è mai più: è del 1999, c’era più cultura della pace all’epoca?

“Molta. E non parlo solo dei leader: è proprio cambiato il pensiero della gente comune, e la colpa è prima di tutto della propaganda di tipo neofascista degli ultimi vent’anni, che ci ha abituato a pensare solo alla guerra. E lo stesso vale per le lobby delle armi. Adesso è normale sentirci in guerra con qualcuno, stare da una parte o dall’altra. Ma la risposta è sempre la pace, altroché”.

Nel 1989, con i Litfiba, avevate suonato in Unione Sovietica; cos’è che ti impedirebbe, oggi, di fare dei concerti a Mosca?

“È cambiato il mondo. Soprattutto, è cambiata la classe politica. Allora il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era nitido, in Unione Sovietica come a Occidente c’era gente che aveva molto più timore a premere il bottone della bomba nucleare. Adesso siamo in mano a dei nuovi imperatori, non temono gli olocausti nucleari, convinti di sopravvivere nei loro bunker. Auguri”.

I cantanti possono fare qualcosa?

“Macché, non contiamo un caz*o. E non ci vogliono neanche riconoscere un ruolo: nel 1999 fummo aspramente criticati dal governo di sinistra, persone molto legate a D’Alema, che aveva appoggiato i bombardamenti in Serbia. Nel dubbio, con i fondi raccolti abbiamo costruito tre ospedali da guerra in Sierra Leone, Kurdistan e Afghanistan con Emergency: il terzo è ancora in funzione. Si vis pacempara pacem“.

Da nonno, sei preoccupato a pensare al futuro?

“Sono pessimista. Cerco di trasmettere consapevolezza alle mie figlie, ai miei nipoti. Per esempio, ora si vota: bisogna votare, credere nella politica, sì, ma farlo in maniera cosciente, pensando che la transizione ecologica e la pace sono l’unica via. Non perderci sui social, pensando di diventare star di TikTok e il resto. Ci si è fritto il cervello”.

In effetti nel disco è un tema che ritorna spesso. In Picasso dici di essere “nato storto come un quadro di Picasso” e che le migliori cose “vengono dal basso”. E ok, ma quarant’anni fa era più facile emergere se non si era omologati?

“No, è sempre stato difficilissimo. Sono convinto che gli artisti, se validi e con qualcosa da dire, ce la fanno, ma per i Litfiba – come per tanti altri, all’epoca e non solo – fu un’impresa titanica venire fuori. Lo rifarei, intendiamoci; ma ha anche chiesto grandi sforzi, che quasi oggi non mi spiego da dove venisse la nostra voglia. Nel 1983, con appena un EP alle spalle, portai il gruppo in Francia, e lì le cose ingranarono: eravamo underground, ma ci sentivamo coccolati, valorizzati, compresi”.

Una storia paradossale, se ci pensi.

“Sì, per carità, Firenze era la casa della musica alternativa italiana, ma era una scena marginale rispetto al mercato. Non c’era niente, solo qualche negozio che vendeva i dischi underground. Per pubblicare Desaparecido, il nostro primo album, tenevamo noi stessi in piedi la I.R.A., una piccola etichetta indipendente che ci permetteva di uscir, e comunque non vendevamo niente. In Francia, intanto, l’album fu pubblicato dalla Sony, una major, con ben altri risultati. Perché lì la cultura underground era capita, mica come qui, dove la ignoravano tutti”.

Oggi cosa resta di quel Pelù lì, storto come “un quadro di Picasso”?

“Ciò che c’è in Deserti, che è la raccolta del mio percorso umano o musicale. All’improvviso, come per magia, si sono uniti i puntini. Ma è anche un album alternativo. Magari non underground, ma in controtendenza, questo sì. È interamente suonato, in un’epoca in cui non è più così importante. E poi richiede cura, attenzione anche solo nell’ascolto. Adesso tante cose mi sembrano di plastica, usa & getta. Alla fine, come da titolo, è un lavoro contro la desertificazione: del pianeta, della periferia, dei sentimenti”.

Fonte : Today