Bombardamenti ‘al fosforo’ israeliani, Beirut vuole presentare una denuncia all’Onu

A dispetto delle smentite dello Stato ebraico l’uso nei raid contro Hezbollah, soprattutto contro obiettivi civili e terreni agricoli, è stato documentato da associazioni pro diritti umani e osservatori sul campo. Il Paese dei cedri pronto a presentare una denuncia alle Nazioni Unite. Amnesty International parla di attacchi “spaventosi” che causano gravi danni all’ambiente. 

Beirut (AsiaNews) – La Corte penale internazionale (Cpi) ha già stabilito che tutta una serie di azioni commesse dall’esercito israeliano nel contesto del conflitto a Gaza contro Hamas possono essere qualificati come crimini di guerra. Amnesty International e Human Rights Watch, assieme a numerose altre fonti affidabili e gruppi sul terreno, siano essi singoli individui o associazioni, che seguono gli scontri fra Hezbollah e l’esercito israeliano alla frontiera sud del Libano – e che hanno causato ad oggi 375 morti e oltre 1500 feriti – hanno registrato ostilità che sono considerate, almeno in via potenziale, crimini di guerra. Fra questi vi sono numerose testimonianze di bombardamenti ai danni di civili, di terreni agricoli e di aree forestali con munizioni al fosforo bianco.

Questi bombardamenti sono iniziati pochi giorni dopo l’operazione “Inondazione di Al-Aqsa” il 7 ottobre scorso e la conseguente guerra a sostegno di Hamas da parte di Hezbollah dal confine meridionale il giorno successivo, 8 ottobre. Purtroppo, le ostilità sono iniziate nel pieno della stagione della raccolta della frutta e delle olive, privando decine di agricoltori delle loro risorse primarie e rendendo inaccessibili alcune aree e regioni prevalentemente agricole. Questa regione, coi suoi terreni fertili e le condizioni ideale per la coltivazione, produce fino al 22% della frutta e degli agrumi di tutto il Paese e il 38% delle olive, secondo i dati forniti dal ministero dell’Economia libanese. Si possono dunque immaginare le perdine per l’economia e la produzione interna

Riduzione della produzione agricola, terreni sterili, aumento del rischio di erosione, minacce per gli organismi viventi. Questi sono solo alcuni fra i principali effetti dell’uso del fosforo bianco, numerosi e di lunga durata, secondo quanto riferiscono gli esperti. Una volta che la sostanza ha raggiunto i fiumi e le falde acquifere, può colpire le persone che bevono l’acqua. Inoltre, se le risorse idriche usate per irrigare sono inquinate, di conseguenza le colture e gli allevamenti locali sono immediatamente esposti alla tossicità di questa sostanza chimica. La sua diffusione può mettere a rischio la sicurezza del ciclo alimentare locale. Al contempo, l’opera di decontaminazione del suolo è possibile, ma è un processo arduo e dall’esito incerto.

Le popolazioni colpite

Secondo quanto riferisce Amnesty International, l’uso di questo tipo di razzi e ordigni contro obiettivi civili ha segnato la primissima fase della guerra nel periodo compreso fra il 10 e il 16 ottobre. A seguire, vi è il bombardamento del villaggio di Dhayra nella notte tra il 16 e il 17 ottobre, che è stato ben documentato dall’organizzazione attivista e dalla stampa locale. Si è trattato di un attacco indiscriminato che ha ferito almeno nove persone e danneggiato proprietà civili. Dhayra è un villaggio sunnita situato a circa cento metri dal confine. È stato diviso in due nel 1948, quando è stato creato lo Stato di Israele: alcuni abitanti della zona hanno ancora parenti nel villaggio posizionato sul lato israeliano, ora ribattezzato Arab Al-Aramshe.

Gli abitanti di Dhayra hanno chiamato la notte tra il 16 e il 17 ottobre la “notte nera”, con la completa evacuazione di tutta l’area che era stata in precedenza pesantemente investita da bombe al fosforo bianco lanciate dall’esercito israeliano, incurante della popolazione locale. Secondo il sindaco del villaggio libanese, Abdallah Gharib, gli attacchi sono iniziati intorno alle quattro del pomeriggio del 16 ottobre e sono proseguiti fino a notte fonda.

“Un odore nauseabondo e una enorme nube coprivano la città, tanto che non riuscivamo a vedere più di cinque o sei metri davanti a noi. La gente ha iniziato a fuggire dalle proprie case in preda alla frenesia” ha raccontato il primo cittadino. “Quando alcuni sono tornati due giorni dopo, le loro case stavano ancora bruciando. Ancora oggi, continuiamo a trovare resti anche grandi come un pugno – ha spiegato il sindaco Gharib ad alcune settimane di distanza dal bombardamento – che si riaccendono se esposti all’aria” illustrando una situazione di persistente criticità.

Il dottor Haitham Nisr, medico del pronto soccorso dell’ospedale libanese-italiano nella regione di Tiro, ha raccontato ad Amnesty International che il 16 e il 17 ottobre le équipe mediche hanno curato nove persone provenienti dalle città di Dhaïra, Yarine e Marwahin. Gli abitanti dell’area bisognosi di cure mediche soffrivano di persistenti difficoltà respiratorie e tosse causate, a suo avviso, dalla inalazione dei fumi di fosforo bianco lasciati dagli ordigni esplosi sul terreno. Una accusa condivisa e rilanciata da Aya Majzoub, vicedirettrice regionale per il Medio oriente e il Nord Africa di Amnesty International, secondo cui “è spaventoso che l’esercito israeliano abbia usato il fosforo bianco in modo indiscriminato, in violazione del diritto internazionale umanitario”.

Difficile arrivare a una condanna

A parte l’attacco ai civili, le devastazioni provocate alla vegetazione e quelle inferte ai terreni agricoli vengono considerate parte di una “politica deliberata e sistematica” della “terra bruciata” come l’ha definita il ministro ad interim dell’Ambiente Nasser Yassine. Per il politico libanese l’obiettivo di Israele era quello di causare danni all’ambiente, per questo il Paese dei cedri intende presentare “una denuncia documentata” contro questi “atti di aggressione, vietati dal diritto internazionale”. Tuttavia, se anche vi sono meccanismi e tutele sul piano del diritti internazionale, al contempo essi sono di difficile applicazione all’atto pratico ed è difficile tradurli in azioni concrete. 

Al riguardo, la ricercatrice Charlotte Touzot-Fadel dell’università di Limoges, che ha lavorato in passato con le Nazioni Unite nel sud del Libano dopo la guerra del 2006, sottolinea che “è necessario comprovare un danno grave e duraturo all’ambiente”. In quest’ottica vale il principio dei criteri “cumulativi e irreversibili” che sono il più delle volte “complicati” da dimostrare sul piano giuridico. “Le Nazioni Unite – prosegue – hanno approvato risoluzioni contro Israele nel 2006 a seguito della marea nera, ma non vi è stata alcuna applicazioni concreta”. L’esperta di ambiente e diritto sottolinea che “anche una condanna simbolica sarebbe stata sufficiente” anche se, a dispetto delle disposizioni normative e giuridiche esistenti, il diritto ambientale “è realmente applicabile – conclude – solo in tempo di pace”.

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Fonte : Asia