Con ogni probabilità, Richard Kelly non aveva minimamente idea di quello che sarebbe successo a quella piccola e bizzarra creatura di nome Donnie Darko. Il nome del regista statunitense è, purtroppo, sprofondato velocemente nell’oblio – complici i clamorosi tonfi con i successivi Southland Tales e The Box – ma il suo esordio alla regia (qui la recensione di Donnie Darko) è rimasto vivo e vegeto, divenuto negli anni un cult generazionale. Eppure il film che lanciò definitivamente la carriera di Jake Gyllenhaal non aveva iniziato il suo percorso nel migliore dei modi: non solo fu difficile trovare distributori, dopo la première al Sundance, ma in quel 2001 la sua release incrociò la strada dell’undici settembre, attentato che minò notevolmente i risultati al box office – il motore di un aereo che cade sulla camera del protagonista, tempismo tragicamente perfetto. Il successo arrivò in seguito, grazie ai passaparola e al mercato home video, fino allo sbarco, nel 2004, alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Venezia Mezzanotte – nella stessa sezione c’era un certo Three… Extremes di Park Chan-wook, Takashi Miike e Fruit Chan.
A distanza di vent’anni dall’uscita italiana, grazie a Notorious Pictures, Donnie Darko torna in sala restaurato in 4K e nella versione estesa, una Director’s Cut che aggiunge circa venti minuti di scene volte ad esplorare maggiormente l’aspetto (fanta)scientifico dell’opera e gli scritti di Roberta Sparrow. Molto si è detto in passato, forse troppo, ma in occasione del ritorno nelle sale pare opportuno ri-considerarne lo status di cult, comprendere se è ancora definibile tale, specie per chi si appresta a vederlo per la prima volta.
Quella tragedia chiamata adolescenza
Tra i motivi che hanno portato il film di Richard Kelly a diventare un fenomeno culturale di massa, c’è anzitutto la sua peculiare identità ibrida. Donnie Darko mette tanta carne al fuoco – che, a dirla tutta, alla lunga appare un po’ troppa – e passa abilmente dal coming of age al dramma fantascientifico a tinte horror, dalla storia d’amore alla satira politico-sociale alla vigilia delle presidenziali, fondendo generi ma trascendendoli per sottostare solo alle proprie regole.
Un mix che prova a dipingere parallelamente due epoche della storia americana e che trova notevole risonanza nel mondo contemporaneo: perché tra i tardi 80s del film, l’avvio del nuovo millennio (il 2001, l’anno in cui esordì) e il 2024 le analogie non sono poche. Epoche anzitutto pervase dalla crisi dell’io e dall’incertezza – l’America post-Reagan con il relativo crollo dell’illusorio benessere o le ansie post 9/11, già iniziate con l’instabilità e le paure della fine del XX secolo – e accostabili al buio odierno, nel quale l’individuo ha perso la bussola morale e nulla è più sicuro, tutto è diventato effimero e sfuggente.
Visto oggi, infatti, Donnie Darko non è – come era prevedibile – soltanto una sorta di capsula del tempo e della nostalgia. Non solo regge bene ma riesce a riflettere persino le ambiguità e le storture del presente: predicatori santoni, la provincia bigotta e tradizionalista (Middlesex è una cittadina quasi finta, un non-luogo fantasma, nel quale dilaga il perbenismo e l’ipocrisia), i giovani mossi per inerzia verso un futuro ignoto.
Se c’è una cosa che comunque appare indiscutibile è il suo essere appieno un figlio del nuovo millennio, capace di cogliere con attenzione lo spirito di un tempo in veloce mutazione. Se la sua eco però perdura quasi intatta è principalmente per un motivo: se si guarda bene dietro il velo ingannatore del thriller sci-fi sui wormhole, al centro delle vicende c’è un contesto universale, che andrebbe bene per qualunque tempo e spazio, ogni epoca e luogo geografico.
Donnie Darko è, infatti, prima di tutto, un dramma sul disagio adolescenziale molto più di quanto non voglia far credere, che indaga la psiche frammentata di un giovane della middle-class, le sue relazioni e le tensioni sociali con l’esterno, la solitudine, il disorientamento e la malinconia di una precisa e dannata età, con lo sguardo puntato sugli outsiders e il loro senso di impotenza, sulle identità individuali che si scontrano con le aspettative sociali. Una gioventù impaurita, abbandonata, che solo pochissimi anni prima era stata al centro del massacro della Columbine e che non riesce più ad orientarsi in un caos molto più complesso della semplicistica dicotomia paura-amore che l’insegnante di educazione fisica (contrapposta ai docenti di fisica e letteratura, potenziali guide) prova ad imporre ai giovani.
L’elemento fantascientifico resta accessorio (non meno importante), un pretesto per poter esplorare a fondo Donnie e il suo viaggio tra il meglio e il peggio dell’esistenza umana, il malessere psicologico e l’insoddisfazione che in età adolescenziale sembrano la cosa più vicina ad un’imminente apocalisse, qualcosa di immensamente angosciante ma inspiegabile, allora come oggi.
Come un film di John Hughes accarezzato dal clima torbido delle storie di Stephen King – che di provincia americana e giovani ha parlato e non poco – prima che questa commistione di elementi eterogenei diventasse abituale, almeno da Stranger Things in poi, priva però del facile e pigro citazionismo recente. Al tempo Kelly aveva solo ventisei anni ed è da presumere che le influenze più forti fossero proprio quelle, oltre ad un caratteristico nichilismo disilluso che ha caratterizzato il cinema americano degli Anni Novanta.
Da un grande potere derivano grandi responsabilità
Non è un caso se nello stesso periodo vedevano la luce, tra i tanti, Memento e Mulholland Drive, opere già al tempo apprezzate ma che continuano a suscitare entusiasmo soprattutto per via della loro struttura narrativa intricata, nati da un’epoca in preda alla confusione. In questo contesto Donnie Darko riesce a ritagliarsi pian piano il suo spazio: quella narrata è una storia ambigua, tra universi tangenti e filosofia dei viaggi nel tempo, nella quale il dubbio persiste anche al termine della visione (cosa significa il finale di Donnie Darko?), trascinandosi come un impegno attivo a lungo termine.
Non solo Kelly intercettò i sentimenti del pubblico ma soprattutto, volontariamente o meno, si innestò in quel filone di narrazioni cinematografiche articolatissime, così da incontrare i favori degli spettatori del tempo. Certo, la Director’s Cut razionalizza parte dei misteri – laddove la prima versione, la migliore tra le due, risultava più evanescente – ma la visione e le interpretazioni continuano a restare, per buona parte, comunque fortemente soggettive.
Ad attirare ancora, forse di più di ieri, è l’atmosfera che viene fuori dall’unione dei generi, di ambiente scolastico e fantascienza macabra: al centro c’è sempre un quadro comune, una situazione usuale, ma i toni sono ogni volta onirici, l’atmosfera si fa surreale, sospesa tra concretezza e immaginazione, tra realtà e sogno, tra Gretchen e Frank. La forma segue così il contenuto, realismo e frenesia cinetica si bilanciano, mentre collassano le certezze dell’immagine insieme a quelle dei personaggi.
Gli echi sono quelli di Lynch – oltre che, in quantità minore, di Gilliam, Burton o Weir – di quell’idea di macabro e surreale annidato nella quotidianità dei sobborghi, così estranea agli stilemi del cinema giovanile da risultare, giustapposta ad essi, paradossalmente perfetta per l’occasione. Soluzioni che sono ancora funzionali e azzeccate, tra le tante matrici di un certo lirismo del cinema indipendente americano contemporaneo – vicino alle storie allucinate di giovani ribelli – che dietro l’estetica ricercata cela una rinata voglia di sperimentare con il genere.
Aspetto al tempo importantissimo per il successo dell’opera, e notevolmente rivalutato nel presente, è la centralità dell’antieroe weird, anticonformista (specchio di un’intera generazione, come si evince dalla scelta della sorella di Donnie di tagliare i ponti e votare Dukakis, poi sconfitto da Bush Sr) e anarchico, che tiene alta la bandiera del “diverso”. Un messia, con tanto di sacrificio cristologico, che vede l’anticristo nel conformismo esasperato e nei modelli stereotipati che la società a lui vicina interpreta. Un supereroe anticonvenzionale che lotta per il libero arbitrio ma che forse – e proprio qui continua a pulsare uno dei fulcri narrativi del film – deve rassegnarsi ad un futuro predeterminato ed inevitabile.
Donnie Darko può ancora essere un cult – definizione, da tenere bene a mente, che non implica necessariamente la dipendenza dal gusto – in virtù della sua mirabile libertà espressiva, attraverso la quale riesce a farsi perdonare molte leggerezze e uno spiccato autocompiacimento. Esordio imperfetto ma ideale punto d’incontro tra tendenze cinematografiche passate, presenti e future, oltre che tra commerciale e indie, il film di Richard Kelly trova nella nostalgia data dal rewatch un’arma in più, un amplificatore per la tristezza che lo permea.
Per voler bene a Donnie Darko – e mettere da parte le più recenti rivalutazioni in negativo, sovente conseguenza dell’aberrante abitudine di denigrare i propri gusti passati o ciò che è diventato troppo popolare – basterebbe anche solo ricordare l’uso straordinario che fa di Head Over Heels dei Tears For Fears, solo la punta dell’iceberg di una colonna sonora diventata celebre soprattutto per la cover di Mad World interpretata da Gary Jules, elevata anch’essa a cult intramontabile più della versione originale.
Fonte : Everyeye