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Il tecnico portoghese utilizza le recenti esperienze alla guida degli Spurs e dei giallorossi per essere chiaro: ricorda a tutti chi è lui, cosa non gli hanno permesso di essere e cosa (non) sono loro.
José Mourinho è così: anche in un momento così bello come la conferenza stampa per una nuova avventura non riesce a guardare solo in avanti, ma deve fare un passo indietro per ricordare a Tottenham e Roma che lo hanno mandato via chi è lui, cosa non gli hanno permesso di essere e cosa (non) sono loro.
È successo nel suo primo giorno da tecnico del Fenerbahçe che lo ha scelto perché serve un allenatore speciale anche per resistere agli urti di una delusione che pesa come un macigno sul cuore: 99 punti (rispetto ai 102 del Galatasaray) non sono bastati per festeggiare il titolo in Turchia.
Il portoghese è lì per vincere, non ha altro nella sua testa. Lo dice in punta di lingua, affilata come una spada. Mulina le parole nell’aria così da tenere a bada quel rumore dei nemici che a Istanbul può divenire fragoroso come altrove. Cita la sua storia e dà l’impressione di mettere le mani avanti.
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Come a dire: io sono pronto e so cosa posso dare, lo saranno anche gli altri? E utilizza le recenti esperienze alla guida degli Spurs e dei giallorossi per essere chiaro. E leggere le sue espressioni solo come un attacco a londinesi e capitolini è vero a metà.
Il Fenerbahçe è una società ambiziosa? Bene. Lo ha preso per vincere? Bene, è quello che vuole e sa fare, lo dice il palmares della sua carriera. Del resto, se è riuscito a fare miracoli durante gli ultimi periodi trascorsi in Premier League e in Serie A allora gli può riuscire a fare qualcosa di “normale” (che per lui è trionfare) in Turchia.
“Cos’è l’ambizione e cos’è un luogo sicuro e confortevole”, è l’incipit del ragionamento. Prende il filo del discorso e lo srotola portandosi dietro l’attenzione dei media, conducendoli laddove lui vuole con una serie di domande retoriche.
Parla del Tottenham e gli riserva questa riflessione: “La mia casa è a Londra, avere un club londinese con cui lottare per il sesto, settimo, ottavo, nono posto e provare a fare il miracolo e qualificarsi per l’Europa League: è questa l’ambizione?”
Poi arriva alla Roma e non è tenero nemmeno nei suoi confronti: “Tutti sanno che amo l’Italia. Avere una squadra in Italia dove devi fare un miracolo per vincere una competizione europea e rimani sempre tra il quinto, il sesto e il settimo: può mai essere questa la mia ambizione solo perché amo l’Italia?”.
E aggiunge: “Essere in Portogallo, essere a casa, andare a trovare mia mamma ogni giorno: è questa l’ambizione?”. No, di certo. Lo dice ma in maniera indiretta. Non sarebbe lo Special One se non lo facesse e lascia che siano altri a trarre le conseguenze naturali.
L’ambizione è giocare per vincere, sentire il calore e la pressione di dover affrontare ogni partita con quello stesso furore agonistico da sfida decisiva per diventare campione. “Ecco perché il progetto del Fenerbahçe ha avuto un impatto su di me ed è il momento che io abbia un impatto sul progetto”.
Fonte : Fanpage