Resettare e ripartire. Lo si dice sempre in presenza di una sconfitta volgendo lo sguardo al prossimo impegno, ma stavolta la possibilità di tornare in campo e reperire le energie migliori per scacciare gli incubi di una sconfitta non ci sarà. La terza finale persa in dodici mesi, dopo quella della scorsa Coppa Italia con l’Inter e la beffa di Praga contro il West Ham nella scorsa edizione della Conference, è probabilmente la più dolorosa per la Fiorentina. Perché a differenza delle prime due, la consapevolezza che si sarebbe potuto e dovuto fare di più – una costante quando si perde – diventa un fardello pesante di cui sarà difficile liberarsi. Un po’ per l’avversario, un Olympiacos non certo irresistibile, un po’ per una tensione che ha finito per bloccare completamente la manovra. Poca iniziativa, nessun guizzo da parte di chi con una giocata avrebbe potuto indirizzare il match su binari diversi, e la paura di esporsi e perdere che ha condizionato tempi regolamentari e supplementari.
La punizione, di certo, è di quelle severissime. Come lo era stata in Repubblica Ceca con Bowen rapido a sfruttare una disattenzione di Igor a centrocampo ed involarsi realizzando al 90’ il gol vittoria. Cambiano gli interpreti, stavolta, ma non l’amnesia che permette ad El Kaabi – inesistente fino a quel momento – di sfruttare un errore di posizione di Ranieri e deviare alle spalle di Terracciano il pallone che spedisce in Grecia il primo trofeo continentale della storia del calcio ellenico, a quattro minuti più recupero dai tiri dal dischetto. Epilogo che fa anche sorgere dubbi su quella che è l’effettiva maturità di una formazione al cospetto degli appuntamenti che contano, visto che, del ciclo Italiano – destinato a lasciare Firenze – verrà ricordato più quello che è sfumato sul filo di lana che piuttosto che quanto costruito (come le sei semifinali in tre anni) in 162 partite.
E forse, il problema sta proprio qui. Nel fatto che i viola non hanno saputo trarre insegnamento dagli errori, fare tesoro dell’esperienza che in fondo è proprio il nome che si dà ai propri errori. Imperdonabile quello di “appiattirsi” di fronte ad un Olympiacos che ha saputo presidiare bene il territorio non concedendo nulla, come quello commesso dai leader che dovevano emergere ed invece incomprensibilmente si sono dissolti. Niente trofeo, a chiosa del ciclo triennale, niente regalo da dedicare allo scomparso Joe Barone, una sola partita per chiudere il libro della stagione 2023/2024 – il recupero contro l’Atalanta – che non aggiungerà né toglierà nulla all’annata, visto l’ottavo posto già acquisito che significherà, ad agosto ancora la presenza nel tabellone della Conference League per il terzo anno consecutivo.
I tifosi presenti ad Atene, di certo, non l’hanno presa bene. Normale, visto che la sconfitta ha coinciso con una prestazione molto al di sotto degli standard a cui erano abituati, a gettare benzina sul fuoco della delusione. Seggiolini, aste delle bandiere e cori che di amichevole avevano ben poco. Però, forse, bisogna elaborare il k.o. per ragionare a mente fredda, e non “di pancia”. Lasciar smaltire la delusione e ragionare su cosa c’è da salvare e cosa da modificare. Italiano farà le valigie e con lui probabilmente una fetta (resta da vedere quanto cospicua) della rosa che affronterà il prossimo torneo. Servirà una punta costante in fase realizzativa, lacuna mai completamente colmata dalla partenza di Vlahovic e forse prima priorità. E poi, appunto ripartire, senza cadere nella tentazione di stravolgere. Non tutto, in fondo, è da buttare. E quel “reset” che non si può procrastinare, ci sarà tempo tempo per farlo in maniera davvero completa.
Fonte : Today