Nel verdetto sul “processo dei 47” l’accusa – avallata dai giudici – è quella di aver organizzato nel 2020 elezioni primarie per aver cercato di ottenere la maggioranza nel Consiglio legislativo e arrivare a sfiduciare attraverso la legge di bilancio l’allora governatrice Carrie Lam (nominata da Pechino). Per questo “reato” in decine sono e rimarranno in carcere. Mentre va avanti anche il processo a Jimmy Lai, con una sentenza che appare già scritta.
Milano (AsiaNews/Agenzie) – Era una sentenza molto attesa quella arrivata oggi a Hong Kong sul cosiddetto “processo dei 47”, gli esponenti del movimento pro-democrazia arrestati nel gennaio 2021 per aver osato – sei mesi prima – sfidare la “sicurezza nazionale” organizzando elezioni primarie in vista del voto per il Consiglio legislativo, il “parlamento” locale di Hong Kong. Un gruppo eterogeneo per età e provenienze di ex consiglieri, giovani studenti così come veterani dei movimenti politici locali, avvocati, giornalisti.
Tre giudici – appositamente nominati, come prevede la Legge sulla sicurezza nazionale – hanno inflitto oggi 14 condanne per “sovversione”, che vanno ad aggiungersi agli altri 31 del gruppo che già all’inizio del processo (più di un anno fa) si erano dichiarati “colpevoli” non nutrendo alcuna fiducia, ormai, nel sistema giudiziario di Hong Kong. Per questo si trovano già in carcere. Tra loro c’è anche Joshua Wong, il giovane leader del “movimento degli ombrelli” del 2014, uno dei volti più noti delle proteste. Quanto poi all’ammontare delle pene si va da un minimo di tre anni fino al carcere a vita, a seconda del “coinvolgimento”.
Solo due, dunque, le assoluzioni arrivate oggi: a beneficiarne sono stati gli ex consiglieri distrettuali Lawrence Lau e Lee Yue-shun. Una parvenza di normalità nel giudizio di un tribunale, quasi a voler mostrare che a Hong Kong si può ancora decidere di non condannare in un processo per un reato legato alla famigerata Legge sulla sicurezza nazionale. Contro queste assoluzioni, peraltro, la procura ha già annunciato che presenterà comunque appello. Nelle 319 pagine del loro verdetto i giudici sostengono che chi trama per sovvertire il potere dello Stato non deve necessariamente usare la forza o impiegare mezzi criminali per essere ritenuto colpevole di violazione della legge, né deve per forza sapere che le sue tattiche sono illegali.
Per capire che cosa questo significhi – e anche il grado di repressione delle aspirazioni democratiche di Hong Kong – vale la pena di ripercorrerla la storia delle elezioni primarie organizzate nel luglio 2020. Quel voto arrivava infatti dopo le massicce manifestazioni del 2019 nate dalla legge sull’estradizione in Cina e diventate presto una battaglia più generale in favore della democrazia a fronte della politica repressiva dell’allora governatrice Carrie Lam, scelta da Pechino. L’evento chiave fu il successo straordinario dei candidati legati al movimento pro-democrazia nelle elezioni dei consigli distrettuali che si tennero il 24 novembre 2019: l’affluenza senza precedenti del 71,23% degli aventi diritto al voto per questi consigli amministrativi di quartiere, portò alla conquista di 388 seggi sul totale di 452 in palio, lasciando a Pechino solo le briciole.
Fu allora che nacque l’idea delle primarie, per provare a giocarsi una battaglia quasi impossibile: conquistare la metà dei seggi nel Consiglio legislativo, per poter mettere in discussione attraverso il voto sul bilancio il governo di Carrie Lam. Impresa difficilissima perché allora il Consiglio legislativo contava 70 seggi di cui solo 35 eletti in maniera diretta dai cittadini di Hong Kong. Dunque per farcela gli esponenti pro-democrazia avrebbero dovuto aggiudicarsi i seggi di tutte e 35 le circoscrizioni elettorali, per poter controbilanciare gli altri membri designati da organismi rigidamente pro-Pechino.
Le primarie – dunque – sarebbero servite a mettere insieme le diverse anime della protesta contro Carrie Lam per convergere su quei candidati in grado di poter vincere ovunque. Inizialmente rinviate a causa della pandemia, le elezioni primarie si tennero l’11 e il 12 luglio 2020 con una partecipazione di oltre 600mila persone. Un dato straordinario, se si considera che a quel tempo la Legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino era già entrata in vigore e appariva chiaro l’intento di non tollerare alcuna sfida al governo imposto a Hong Kong dalla Repubblica popolare cinese.
La risposta delle autorità fu subito il rinvio di un anno delle elezioni con la scusa del Covid-19 e poi – il 6 gennaio 2021 – gli arresti di tutti i principali promotori e candidati, con l’accusa di “sovversione” sulla base della quale sono stati giudicati oggi. Quando poi il 19 dicembre 2021 – dopo il rinvio – si tennero le elezioni per il nuovo Consiglio legislativo la composizione era stata cambiata, riducendo drasticamente il numero dei consiglieri eletti in maniera diretta (solo un quarto) e soprattutto non ammettendo alcuna candidatura estranea alle forze “patriottiche”. Questo Consiglio creato con queste premesse, poi, nel marzo scorso ha votato all’unanimità l’ulteriore inasprimento delle norme sulla sicurezza nazionale, ai sensi dell’articolo 23 della Basic Law di Hong Kong.
Tenendo presente tutta questa vicenda, appare chiaro che quanto i giudici su istruzione di Pechino condannano come reato di “sovversione” è una cosa molto semplice: voler decidere chi governa le istituzioni di Hong Kong. In questo consiste oggi “l’attentato alla sicurezza nazionale”. Ed è il tema centrale anche degli altri processi in corso, primo tra tutti quello a Jimmy Lai, l’imprenditore cattolico 76enne in carcere da più di 1000 giorni in quanto promotore del quotidiano pro-democrazia Apple Daily, costretto alla chiusura sempre nel 2021. Iniziato il 18 dicembre scorso, il suo processo va avanti ormai da più di cinque mesi con accuse surreali e un esito verosimilmente già scritto, come per il “processo dei 47”.
Mentre – come raccontavamo appena qualche giorno fa – per un altro grande filone, quello degli attivisti che organizzavano ogni anno le commemorazioni del massacro di piazza Tiananmen, gli arresti continuano ancora oggi. Così il contatore dei prigionieri politici dell’Hong Kong Democracy Council è salito ulteriormente a quota 1869. Sempre in nome della “sicurezza nazionale”.
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Fonte : Asia