Sta sviluppando una cura unica al mondo per certi tipi di linfomi. Per le sue ricerche sul campo ha ricevuto premi prestigiosi ed è entrato nell’American Society of Clinical Investigation, l’associazione americana dei ricercatori eccezionali. E per portare le sue scoperte alle persone che soffrono ha fondato una startup. Si chiama Marco Ruella, è torinese, ha 41 anni. È medico, professore, scienziato, fondatore di una biotech dal nome bellissimo: ViTToria (scritto così e capirete presto perché). Insegna all’università della Pennsylvania, a Filadelfia.
Ha lavorato per anni con il pioniere della terapia CAR-T, il professor Carl June, uno scienziato straordinario che probabilmente sarà candidato al Nobel per aver sviluppato la CAR-T Therapy. Si tratta di una terapia che utilizza cellule modificate per distruggere i tumori. La rivista Science l’ha definita una terapia rivoluzionaria.
“La CAR-T Therapy consiste nel prelevare i linfociti T del paziente, una sottospecie di globuli bianchi, coltivarli in laboratorio e modificarli affinché esprimano una proteina chiamata CAR (Chimeric Antigen Receptor). Questo recettore risveglia il sistema immunitario, permettendogli di riconoscere e combattere il tumore” spiega Ruella.
La CAR-T ha mostrato il maggior potenziale di risultati curativi di qualsiasi terapia antitumorale nella storia, ma permangono dei limiti.
Sebbene la terapia funziona per linfomi a grandi cellule B, mieloma multiplo e leucemia a cellule B, ha alcuni problemi.
“Solo un terzo dei pazienti risponde in modo positivo a lungo termine e molti tumori sviluppano meccanismi per sfuggire al sistema immunitario”. Ruella è partito da qui. Da questi problemi, per cercare le soluzioni. E ha concentrato tutti i suoi sforzi per cercare di capire perché due terzi delle persone non rispondono a questa terapia e come renderla più efficace.
Di queste cellule si parla da almeno trenta anni. Ma Carl June ha trasformato gli studi in farmaci approvati dalla FDA (Food and Drug Administration) e arrivati dal 2017 sul mercato. Il primo CAR-T approvato è stato proprio sviluppato all’Università dove lavora il dottor Ruella.
“Siamo partiti da qui con l’obiettivo di migliorare l’efficacia di queste terapie. Abbiamo usato l’ingegneria genetica e scoperto che, se rimuoviamo una proteina, chiamata CD5, dai linfociti CAR-T, queste cellule immunitarie diventano super potenti e ammazzano completamente il tumore, lavorando molto meglio dei CART-T che conservano la CD5 “.
Scoperto questo processo, Ruella ha deciso di uscire dal laboratorio ed entrare nella clinica. “Ho una mentalità da europeo, ma l’America è davvero il luogo delle opportunità. Quando arrivi qui, capisci che hai la possibilità di fare tutto… o quasi”.
“Con ViTToria (le due T sono una per CART e l’altra per T-cell lymphoma) abbiamo raccolto 40 milioni di capitali, abbiamo l’autorizzazione della FDA e nelle prossime settimane tratteremo il nostro primo paziente. È la prima volta che si fa un esperimento del genere al mondo. Lo stiamo provando sui linfomi di tipo T, una malattia rara, per cui al momento non ci sono terapie efficaci. Davanti a tutto questo provo sentimenti contrastanti, un misto tra emozione e paura”.
Vittoria si chiama così perché vuole essere una vittoria contro il cancro.
Piemontese, cresciuto tra Torino e Govone, piccolo paese tra Alba e Asti, da dove provengono i suoi genitori, quello di Ruella è un destino non scritto. “Non sono mai stato uno di quelli che da bambino diceva: farò il dottore. Non ho genitori o nonni medici. Volevo fare ricerca”. Finisce le superiori e fa il test per entrare a fisica, ingegneria e medicina. Li passa tutti. “Ho scelto poi medicina perché… in fondo sapevo che era la mia strada… e per un errore avevo già pagato le tasse!”.
Studia a Torino al polo del San Luigi Gonzaga di Orbassano. Al terzo anno conosce Corrado Tarella, un ematologo che lavora sulle cellule staminali e che lo invita a fare ricerca nel suo laboratorio. Prosegue con la specialità in ematologia all’Ospedale Molinette. Di giorno in reparto tra i pazienti, di sera va in laboratorio al Centro di Biotecnologie Molecolari (MBC) a fare esperimenti. “Studiavamo la senescenza cellulare. Guardavamo come le cellule staminali invecchiano. Più facevo ricerca, più mi innamoravo”.
Con il professore Tarella, apre poi il reparto di ematologia dell’ospedale Mauriziano Umberto I di Torino. “Ho capito un sacco di cose, ma volevo fare ricerca- “Se vuoi imparare la metodologia scientifica – mi disse il mio prof “devi andare in America”.
Nel 2011 a un congresso di New York, sente parlare di “CAR-T Therapy” e ne rimane affascinato. Scopre che il pioniere è il professor Carl June. “Mi sono detto: voglio andare da lui. Abbiamo provato a contattarlo. Niente. Da buoni italiani non ci siamo persi d’animo e lo abbiamo invitato a un simposio sulle malattie linfoproliferative che il mio professore organizzava a Mondello, a Palermo. Il professor June ha accettato, è arrivato in Italia e una volta qui gli abbiamo chiesto una posizione da ricercatore. Me l’ha offerta dopo sei mesi…”
Ruella arriva alla University of Pennsylvania nel momento migliore, si comincivano a vedere i primi incredibili risultati di queste terapie. “Vedevamo le leucemie guarire ed eravamo esaltati”.
Partire però non è stato facile. “A Torino avevo una casa, una fidanzata, un lavoro, un laboratorio dove fare ricerca. Ho fatto un salto nel buio. Quando ho salutato mia madre all’aeroporto di Caselle, sentivo una sensazione di “missione”: dovevo partire, non potevo fermarmi. Avevo 30 anni e una certezza: volevo dedicare la mia vita alla ricerca. All’inizio è stata durissima. Dopo un mese che ero qui, un po’ perso e un po’ stuzzicato dalle sfide, Nadia che attualmente è mia moglie mi ha raggiunto. E un anno dopo ci siamo sposati, in America. Il suo arrivo mi ha dato una grande stabilità. Vivevamo in una stanza sola, piccolissima, non avevamo la macchina, giravamo in bicicletta, ma eravamo felici. Sono passati 12 anni e siamo ancora qui, ho un laboratorio tutto mio, una casa con un giardino e soprattutto due bimbi, di 7 e 2 anni”.
Le “CAR-T Cells” saranno sempre più usate. “Stiamo lavorando in tantissimi sul tema. Ci vorrà ancora un po’ di tempo ma sono sicuro che le useremo anche nei tumori solidi. Inoltre abbiamo dei progetti nelle malattie autoimmuni come il Lupus“.
“Quello che mi ha sempre affascinato della medicina è che puoi pensare da scienziato, ma nel tuo lavoro c’è una grossa componente umana. Il 90% del mio tempo è fare ricerca, ma spesso resto con i pazienti in ospedale”.
Ruella è molto connesso con l’Italia. “Lavoro a stretto contatto con Paolo Corradini, Presidente della Società Italiana di Ematologia; con il mio mentore Corrado Tarella, e con molti altri colleghi, inclusi quelli all’Università di Torino, la mia Alma Mater. Ho aiutato a nominare Carl Jun per il premio Lombardia, premio prestigioso da un milione di euro che servirà per sviluppare un ponte tra l’America e la Lombardia. Da luglio sarò visiting professor dell’Università di Torino”.
Cosa hai imparato lungo questa strada?
“Non mi sono mai svegliato un giorno con la sensazione di stanchezza di fare un lavoro che non volevo fare. Certo ci sono stanti molti momenti difficili, per esempio durante la pandemia. Però ho capito che se segui le tue passioni e sei nel posto giusto puoi realizzare i tuoi obiettivi. In realtà non ho mai pianificato molto la mia carriera, ho seguito l’istinto e le opportunità. È fondamentale sapere farsi aiutare dalle persone giuste. L’Italia mi ha dato la formazione, e le sono estremamente grato, ma l’America ha perfezionato il sistema virtuoso del “mentoring”. Tu arrivi qui e identifichi i tuoi mentori. Quando sono arrivato, lavoravo con il professor Michael Kalos e con il giovane assistente Saar Gill che facevano parte del gruppo di Carl June. Mi hanno dato tutto, mi hanno messo in una situazione dove potevo fare quello che volevo. Ricordo che il prof Kalos mi ha chiesto: cosa vuoi fare? Dove vuoi arrivare? Fai un piano e decidi come raggiungere i tuoi obiettivi. Era tutto nelle mie mani. Nel mio laboratorio faccio la stessa cosa. Ho circa venti persone, a ognuno dico: ti do supporto, strutture, sviluppo le idee con te, ti aiuto, però alla fine: it’s up to you. Quello del mentoring è un concetto bellissimo. Non lo fanno (solo) perché sono generosi, ma perché hanno creato un sistema dove il successo degli studenti è il loro successo“.
Cosa sogni per i tuoi figli?
“E così bello vederli crescere. Cerco di non proiettare la mia carriera su di loro, sarebbe un modo per distruggere le loro vite. Cerco di essere attento a capire dove vogliono andare, ma il mio obiettivo è uno solo: aiutarli a essere felici… Come loro mi rendono felice ogni giorno”.
Fonte : Repubblica