Pride, com’è organizzarlo in una “piccola” città: il caso di Alessandria

Alessandria conta poco più di 92mila abitanti. Incastonato al centro del triangolo industriale Torino-Milano-Genova, di novecentesca memoria, il Comune ospitò il primo Pride – la marcia commemorativa dei Moti di Stonewall, oggi momento di rivendicazione delle istanze della comunità lgbtq+ – nel 2019 sotto una giunta di centrodestra a guida leghista. Quello di Alessandria è uno dei tanti Pride di “provincia”, le manifestazioni organizzate non dalle città capoluogo di regione che hanno fatto da apripista in Italia, come Roma, Milano, Torino, Napoli e Palermo, ma da realtà più periferiche – non ce ne vogliano! – dove più complesso che nei grandi centri è organizzarsi e raccogliere le forze affinché le sfilate dell’orgoglio tra le vie dei centri cittadini possano svolgersi regolarmente, raccogliendo la comunità queer che qua, ancor più urgentemente delle grandi città, ha bisogno di visibilità e supporto.

Pensare a un Pride ad Alessandria, appena 10 anni fa, sarebbe stato impossibile, così come in altri luoghi d’Italia dove anno dopo anno si iniziano a raccogliere le organizzazioni: Cosenza, Ferrara, Taranto, Enna, Forlì, Aosta, Belluno, per citarne alcune. Sono queste le città dell’Onda Pride, la rete nata nel 2013 per fare da collante tra tutte le esperienze dei pride nazionali, con la volontà di mettere in dialogo le tante realtà dell’associazionismo, coinvolgendo le istituzioni e i cittadini. Oggi la rete di Onda Pride supporta e dà visibilità ai Pride di tutta Italia, e sarebbe ingeneroso non riconoscere come questo ente abbia facilitato nel tempo il fiorire, in tante località più o meno piccole, di manifestazioni dell’orgoglio, come ad Alessandria.

Ma come nasce un piccolo Pride (ogni anno sempre meno piccolo) come ALPride – gioco di parole nato tra Alessandria e Pride, di cui la città va parecchio orgogliosa? Per capirlo, ci siamo fatti aiutare da Tessere Le Identità, l’associazione lgbtq+ dietro all’organizzazione del primo ALPride nel capoluogo piemontese nel 2019, e dalla sua vicepresidente Stefania Luce Cartasegna, all’epoca massima in grado nell’associazione.

Come si organizza un Pride, da zero

“Tanta pazienza, quella serve”, scherza Cartasegna. Tutto è partito ben prima del 2019, da una richiesta sollevata dall’associazionismo territoriale che dovette fare i conti con tante resistenze. “Lavorare su un piccolo territorio significa svelare un’omofobia latente tipica del provincialismo italiano, che costringe nell’ombra una comunità queer ormai numerosa”, ci ha raccontato. Quando a Torino si decise di fare il primo Pride nel 2006, con il sindaco di centrosinistra Sergio Chiamparino, la giunta si divise tra l’anima cattolica e quella più progressista (maggioritaria), ma era evidente come ci fosse un’attenzione verso queste tematiche che favorì il processo; ad esempio, esisteva già uno sportello antidiscriminazione lgbtqia+ in città. Alessandria andò incontro a un processo un po’ più complicato, sebbene fossero passati ben 13 anni da Torino 2006. Il primo Pride del 2019, che non vide la partecipazione dell’associazione de commercianti locale, raccolse però tante realtà del territorio: dalla Cgil alla Uil, passando per l’area socio-assistenziale, fino a cooperative storiche come Il Gabbiano e il centro antiviolenza Medea. Quell’anno, un grande input arrivò anche dall’Università del Piemonte Orientale.

Fonte : Wired