CCCP, il concerto bolognese è un rito collettivo, una liturgia postmoderna senza nostalgia

Tondelli, discutendo l’immaginario dei CCCP nel suo libro “Un weekend postmoderno”, sosteneva ed evidenziava come il filosovietismo si manifestasse come una questione di identità culturale, un’esigenza di confrontarsi con duemila anni di storia europea, una divisione che non poteva essere semplicemente annullata da qualche decennio di separazione. Punk, Emilia, l’influenza tangibile dell’Unione Sovietica, sono visioni, coordinate di un’isola personale, e le loro canzoni sono il simbolo di un dissenso esistenziale e di una geografia interiore ostinata, un riflesso di ciò che erano e di ciò che sono diventati, attraversando quarant’anni di cambiamenti e contraddizioni. Ancora capaci di creare disagio, di concedere spazio, possibilità, visioni di questa realtà che conosce solo l’individualità capitalista: Produci Consuma Crepa.

“Chi l’avrebbe detto che ci saremmo trovati ancora qui a suonare a questa età”, asserisce a fine concerto Giovanni Lindo Ferretti, concludendo l’esperienza sul palco assieme liturgica e appassionata, con una scaletta che supera le due ore, includendo pezzi come “Emilia Paranoica”, “Curami”, “Punk Islam” e “Radio Kabul”, quest’ultima che con le sue sonorità evocative tocca temi di stretta attualità: Annarella, avvolta in un burka, si impone immobile davanti al gruppo e al pubblico e il brano si conclude con un’ode al presente: “All’erta sto come un russo nel Donbass, come un armeno del Nagorno-Karabakh”. Le sorprese non mancano, con “Spara Jury” che si dispiega dopo le note di “Bang Bang” e la cover di “Kebab Träume” dei Daf cantata da Zamboni. Il finale è un climax emotivo con “Amandoti”, le note melodiose cariche di sofferenza risuonano nell’aria, cantate dalla folla in un coro unanime, trasformando ogni nota, ogni parola, in un canto d’amore. Un grande rito collettivo, una liturgia postmoderna senza nessuna nostalgia, una forza iconoclasta, il rifiuto dell’ortodossia.

Fonte : Wired