Quando nel 2016 eravamo a Taipei per l’insediamento della presidente Tsai Ing-Wen, le attese della vigilia erano inquadrate in una cornice di ansia e preoccupazione: ci si aspettava un discorso duro da parte della prima donna nella storia a salire sulla poltrona presidente di uno stato di lingua cinese, proclami dai toni aspri verso Pechino e arringhe per risvegliare il sentimento indipendentista dell’isola di Formosa.
Nei fatti, però, non solo il discorso ma anche il percorso di governo di 8 anni della presidente taiwanese è stato improntato alla moderazione, all’equilibrio, allo mantenimento dello status quo. Che è la definizione-chiave attorno a cui è ruotato il suo incarico presidenziale, consentendole (nonostante le grandi tensioni che ha dovuto affrontare e le difficoltà del contesto internazionale) di mantenere un grado di consenso attorno al 50% al termine dei suoi due mandati. Un record assoluto.
Il suo successore, Lai Ching-te, prendendo in mano il testimone della Tsai dopo la vittoria alle elezioni del 13 gennaio scorso, sembra essere intenzionato ad imprimere una svolta nei toni e forse anche negli atti. E non sorprende che ciò avvenga per chi conosce quel Paese, visto che Lai è sì esponente dello stesso partito che governa da 8 anni Taiwan (il Dpp), ma rappresenta la ‘corrente’ meno moderata nei rapporti con la Cina e decisamente più radicale. E infatti il neo presidente durante il suo discorso ha utilizzato un linguaggio più retorico rispetto alla cautela strategica di Tsai, enfatizzando il profilo democratico di Taiwan come contraltare al regime autoritario cinese.
L’intervento inaugurale di Lai ha poi battuto molto sull’alleanza con gli Stati Uniti, fissando l’obiettivo di renderla ancora più solida (ma va detto che è già solidissima, al punto che sul piano delle relazioni internazionali Taiwan è considerato un avamposto a stelle e strisce in Asia) per mettersi al riparo dalle minacce di Pechino.
C’è stata un’apertura al dialogo verso il presidente cinese Xi Jinping, quando Lai ha invitato la Cina a “interrompere le intimidazioni politiche e militari contro Taiwan e di lavorare insieme a Taiwan per mantenere la pace”. Ma poi i toni hanno ripreso accenti simili ad una rivendicazione di indipendenza, arrivando a definire la Cina una “minaccia”.
Per William Lai (la versione ‘anglosassone’ del nome neo presidente), sarà in ogni caso un mandato presidenziale più difficile di quelli precedenti. Sì il parlamento è controllato dal Kuomintang – il partito avversario del Dpp, lontano dal potere dal 2016 e dopo essere stato a lungo garante del difficile equilibrio tra Taipei e Pechino – assieme all’altro partito di opposizione, il Tpp, Taiwan People’s party.
Fin dall’inizio della legislatura, lo Yuan legislativo (una sola Camera di 113 deputati) è stato teatro di scontri durissimi, sfociati anche in violente risse per via del tentativo di far approvare una legge che rafforza i poteri del parlamento rispetto al governo. Un antipasto di quattro anni che si preannunciano turbolenti per Taiwan e per il neo presidente William Lai, che avrà il difficile compito di dare impulso ai salari e al problema dell’invecchiamento della popolazione, di assicurare il mantenimento della pace sullo stretto di Formosa e di continuare a tenere alta l’attenzione internazionale sulle vicende suo Paese.
E forse quest’ultima sarà la sfida più difficile per Lai, dopo otto anni nei quali la presidente Tsai è riuscita a portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le ragioni del suo Paese, che nel 2016 – quando si insediò tra lo scetticismo generale – erano piuttosto ignote.
Fonte : Today