“Una cosa che interessa a me e che noto durante i miei workshop al Conservatorio di Venezia, a Milano o alla St. Louis School a Roma: lavorare con musicisti che utilizzano Ableton è un grande piacere perché per prima cosa c’è la musica, dopodiché devono pensare a cosa fare con il resto. Sono pieni di idee perché il giovane compositore di musica elettronica di oggi è anche visual artist perché ce l’hanno già nella testa, sai come sono?”
Assolutamente, è tutto collegato: musica, ritmo, immagini, l’impatto. Negli ultimi anni si parla molto di immersività. È aumentata anche la richiesta del visual art grazie a questa necessità?
“Anche grazie a questa possibilità perché io posso comunicare senza nessun problema con i led motorizzati per esempio, sincronizzare tutto con il visual, con la musica, tutto insieme. Si diventa un po’ light designer e lo devi tenere in considerazione. Ho fatto un concerto alla Biennale della Musica al Teatro Alle Tese, con sei led motorizzati con musiche di Gérard Grisey e un ensemble di musica contemporanea”.
Negli ultimi anni si parla molto di intelligenza artificiale. Tu l’hai utilizzata?
“No, seguo tutti i tutorial, so a che punto è in questo momento, non è di mio gradimento ma è molto interessante. Per me sarebbe utile per la modellazione 3D, tipo fare dei point cloud (un insieme di punti in un spazio definiti da coordinate e valori diversi) fatti con l’AI. Non ho ancora provato però sto seguendo questa cosa”.
C’è una componente di incognito nelle tue opere visuali?
“Se io costruisco una macchina con un motore ho tutti i controlli, però a volte mi stupisce cosa può fare. Mi sorprende spessissimo. Qui è la stessa cosa: spingo un po’ in più, cambio qualche numero e poi puh! Succede lo stesso con i miei studenti: io insegno una cosa abbastanza semplice, e loro cominciano a giocare con i numeri. Qualcosa che magari non devono toccare invece lo toccano e diventa una cosa bellissima perché non hanno la preparazione che ho io”.
E perché hanno l’incoscienza…
“Questo è un vantaggio. Ho fatto una lezione di sei ore a Roma. Erano due principianti, c’è voluta pazienza però alla fine hanno tirato fuori una cosa fantastica, sono contentissimo”.
Sei nato a Sidney e poi ti sei trasferito a Milano. Come è successo?
“Sono arrivato negli anni 90 perché sono andato a un congresso di computer grafica a Las Vegas e c’era il proprietario di una società milanese che parlava del loro lavoro facendo rendering di immagini fissi per la stampa. Di mobili, di macchine, di piastrelle, di interni, tanta roba con una qualità altissima. L’ho accettato perché trovavo molto interessante la proposta allora sono andato lì per questo lavoro e sono rimasto”.
Ha una grande esperienza anche nel mondo del cinema. Come sei arrivato fino a lavorare per il film Matrix?
“Io ho iniziato con l’animazione per pubblicità, per sigle e cose simili. Poi tutti quelli più bravi sono andati avanti e sono entrati nel campo di cinema, perché quel mercato negli anni 90 è nato in Australia. Però devo dire che il primo lavoro per cinema l’ho fatto qui, a Milano, con Gabriele Salvatores per Nirvana. Dopo di che c’è stato Dark City a Sydney e poi Matrix. Ho sempre tenuto contatti con tutti quelli dell’Australia”.
Come è stato lavorare con le sorelle Wachowski?
“Incredibili. Per comunicarmi una sensazione come velocità o le sensazioni per una ripresa utilizzavano dei suoni. Non succede mai così con un cliente, non sono in grado di comunicare in modo, per così dire, infantile ma allo stesso tempo molto efficace. Così torniamo automaticamente alla musica che è movimento. Era facilissimo arrivare a quello che sentivano loro dentro”.
In quali parti del film di Matrix hai curato gli effetti?
“Io mi sono occupato alla fine in cui c’erano 4-5 pose quando muore l’agente Smith, c’è la mano, le bolle, esplode la testa e poi esplode tutto. Loro mi dicevano che volevano la testa dell’agente Smith che esplodesse in un certo modo”.
Ti sei occupato di quella parte lì?
“Sì e volevano la testa dell’agente che si muovesse così, con pezzi di testa. Avevo a disposizione il modello 3D della scansione mappato con le foto e basta. È stato un grosso lavoro di 2D e 3D e molto compositing (combinazione di elementi visivi provenienti da fonti separate in singole immagini, nda)”.
Fonte : Wired