Isabella Gordon in Marconi è finzione ma è esistita davvero, Ludovica Martino: “Ispirata a una giornalista”

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Intervista a Ludovica Martino, l’attrice romana ora tra i protagonisti di Marconi, la miniserie su Rai1 in cui interpreta il personaggio di Isabella Gordon. Dagli inizia ancora adolescente, fino all’exploit con il cinema d’autore, la 27enne racconte si aver sperimentato tanto in questi anni davanti la macchina da presa e di voler continuare ancora, ancora e ancora.

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Ludovica Martino ha 27 anni, ma la sua carriera da attrice è iniziata già dieci anni fa. Un tempo necessario per crescere, per conoscersi, per sperimentare e capire cosa le piaccia davvero, un tempo giusto per affermarsi come uno dei nomi più promettenti del cinema italiano. Se un teen drama, unico nel suo genere, come Skam, le ha dato notorietà è con i ruoli di donne adulte, mature, sfaccettate che l’attrice romana ha dimostrato di sapersi destreggiare tra le storie più disparate, raccontando coraggio, sofferenza, paura, libertà, anche gioia, mettendo in ogni personaggio un po’ delle sue nuove consapevolezze. Il 20 e 21 maggio veste i panni di Isabella Gordon in Marconi, la miniserie Rai, con Stefano Accorsi, in cui è proprio la sua giornalista a tingere di thriller quello che poteva essere un normale racconto biografico. In questa intervista si racconta, parlando delle difficoltà del suo mestiere, ma anche della grande opportunità che ha avuto, iniziandolo, di scoprire sempre più nuove e nascoste parti di sé.

Parlaci di Isabella Gordon, chi è?

Una giornalista e cineasta, ma il personaggio reale a cui si ispira è Lisa Sergio, ovvero la giornalista che riuscì ad intervistare Marconi nell’ultimo anno della sua vita. Il mio personaggio, in realtà, non ha troppe attinenze con la vera giornalista, lei è stata molto vicina a Marconi, soprattutto negli ultimi anni, ma la nostra non è una biografia didascalica di Marconi, anzi, è proprio l’introduzione di Isabella a renderla una spy story.

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Il tuo in effetti è un personaggio sfaccettato, non è quello che sembra. 

È una spia e fa non il doppio, ma il triplo gioco. Le viene chiesto dalle alte cariche del Fascismo di estorcere informazioni preziose a Marconi, con il quale nel frattempo chiude un’intervista e poi, essendo una giornalista italo-americana, ovviamente passa dettagli anche agli americani.

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L’hai definita subdola, perché? 

In realtà segue il proprio sogno, quello di realizzare un documentario sui grandi italiani del passato, tra cui anche Marinetti, Balbo, D’Annunzio e alcuni avevano dato il consenso grazie all’intermediazione di Mussolini. Storicamente Marconi non rilasciava interviste, soprattutto in un certo periodo della sua vita, dal momento che aveva dei contenziosi con l’Inghilterra. I fascisti, quindi, la aiutano a ottenere questo incontro, ma le chiedono in cambio di scoprire se davvero lui stia lavorando a questo famoso “raggio della morte” commissionato dal Duce, un’arma letale che sarebbe servita in guerra. Accetta, sebbene sia chiara sin dall’inizio, dicendo di non essere una spia, ma cade in un gioco più grande di lei. Mette in pericolo la vita di Marconi e la sua, ed è quando si trova costretta a scappare che diventa subdola. Inizia a diventare ingannevole, sfrontata, manipolatrice. Tanto è vero che c’è un momento in cui Marconi le chiede “ma tu chi sei?”, un’attrice, una giornalista, povera figlia di italo-americani, chi sei?

È già da qualche anno, ormai, che vesti i panni di donne adulte. Nel film Il mio posto è qui, interpreti una giovane donna che prende coscienza di poter fare la differenza. Un messaggio amplificato dopo la risonanza di C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Che riflessione hai fatto sulla condizione della donna oggi dopo aver interpretato un ruolo di questo tipo?

C’è tanto lavoro ancora da fare e col cinema abbiamo una piccola voce per puntare un faro su temi importanti, servendoci dell’arte, dell’emozione che arriva al pubblico. Si spera sempre di smuovere le coscienze, creare storie che diano spunti per riflettere. Personalmente scelgo storie che, nel periodo in cui siamo, meritano di essere raccontate. Sono contenta di prendere parte a progetti come Il mio posto è qui, che può sembrare lontanissimo temporalmente, perché ambientato nella Calabria degli Anni 40, ma in cui c’è una forte attinenza al presente. Ad ogni modo credo che il lavoro più grande va fatto insieme, uomini e donne.

Ludovica Martino in "Il mio posto è qui"

Ludovica Martino in “Il mio posto è qui”

Se negli Anni 40 non era scontato che la cultura fosse fruibile alle donne e quindi poteva essere una spinta all’emancipazione, ad oggi cosa pensi sia necessario a una donna per affermarsi?

Sarebbe necessario che le donne non si sentano sole, che ci siano uomini sempre più moderni, che le aiutino, ne siano fieri, che supportino il loro percorso di indipendenza, di emancipazione. È così che cambia la mentalità, in senso più ampio, poi come si evince anche dal film, la cultura, lo studio, il sapere ti danno uno strumento potentissimo, è così che ci si informa, si crea un proprio pensiero, non siamo soggiogate da un’idea familiare, o legata al contesto in cui si vive. Avere il coraggio di guardare oltre i propri confini è fondamentale, e la conoscenza può fungere da amplificatore di quel coraggio, di quella spinta a non adagiarsi a voler cambiare le cose.

E nel tuo settore, su cosa pensi si debba lottare per abbattere la disparità di genere?

Credo che qualcosa si stia muovendo, c’è un atteggiamento propositivo rispetto a quando ho iniziato, ormai dieci anni fa. I ruoli delle donne erano molto risicati, strumentalizzati o usati a favore della figura maschile che aveva sempre il ruolo da protagonista. L’uomo raccontava una grande storia e la donna interpretava la moglie, la madre, la fidanzata, era un ruolo bidimensionale, come se l’interesse nei confronti del vissuto delle donne fosse minore. Ora, invece, c’è stato un cambio di passo, abbiamo anche più registe e se prima ti chiedevano chi è il tuo regista preferito, adesso non si generalizza sul maschile. Anche le storie delle donne, oggi, hanno la risonanza che meritano.

Quali storie ti piace raccontare?

Sono molto legata alla sceneggiatura, a quello che riesce a trasmettermi emotivamente, da qui scelgo se partecipare o meno a un film. Sono molto introspettiva, mi chiedo sempre che contributo posso dare a quel determinato ruolo, cerco di mantenere viva l’onestà intellettuale che mi permette di riconoscere se in un certo momento della mia vita sono in grado di dare un valore aggiunto ad una storia da raccontare. Poi c’è da dire che molto è già stato raccontato, è il modo che cambia, per cui mi lascio coinvolgere. Parlando di generi, più che di storie, mi piace sperimentare, spaziare.

Sono ormai dieci anni che fai questo lavoro, hai scoperto cose di te che non conoscevi?

Tantissime. Se guardo la ragazza che andava ai provini, a 18 anni, sembra un’altra persona, vorrei abbracciarla e dirle che andrà tutto bene. Il lavoro mi ha aiutata a rendermi più libera, scevra dal giudizio degli altri, mi ha insegnato a connettermi con quello in cui veramente credo, mi ha regalato una forma di indipendenza enorme, non solo economica, ma anche personale. Mi sono riempita di conoscenza, ho incontrato persone che non avrei mai pensato di conoscere, già il fatto di aver conosciuto il nipote di Guglielmo Marconi, non sembra una cosa incredibile? Se ripenso al periodo di Skam, mi vedo piccola, indifesa, fragile, ma poi devo dire che il mio percorso personale è andato di pari passo con quello artistico.

Ludovica Martino è Eva Brighi in Skam

Ludovica Martino è Eva Brighi in Skam

In cosa ti senti diversa?

Mi sento più donna, mi piaccio di più, è migliorata anche la mia pazienza. Prima non riuscivo ad aspettare, ero famelica di vincere provini, ne facevo uno e mi dicevano no, un altro e ancora no. Questo lavoro mi ha messo davvero a dura prova, mi ha dato una calma interiore che non avevo, insieme ad un dinamismo, una voglia di mettermi in gioco, liberandomi delle paure. È un lavoro che ti permette di fare cose incredibili, dal metterti in bilico attaccata ad un filo al quarto piano di un palazzo, o come è accaduto a me, girare nel bosco nuda, o ricoperta di sangue da capo a piedi. Devi metterti in connessione col tuo io e questa cosa ti fa crescere.

Hai mai temuto che essendo stata la protagonista di una serie amatissima come Skam, tu potessi essere associata sempre e solo a quel progetto?

No, questa cosa non mi è mai successa. Sono grata alla serie che mi ha lanciata e meno male che c’è stata, altrimenti non avrei fatto tutte quelle bellissime esperienze che il mio lavoro mi ha permesso di fare. Probabilmente non avrei vinto altri provini, invece vedendomi in Skam, produttori e registi hanno pensato che fossi giusta, fa parte del mio percorso. Con la mia agente quando abbiamo capito che Skam stava riscuotendo un certo successo, abbiamo fatto un ragionamento per certi versi coraggioso.

Sarebbe?

Visto che Skam ha creato un precedente nella serialità italiana, non era mai stato fatto un racconto teen di quel tipo, in cui io sono stata protagonista, era necessario fare il lavoro opposto, non fare più teen drama. Sotto il sole di Riccione, infatti, l’ho girato subito dopo Skam, che comunque ha avuto successo almeno due o tre anni dopo la prima stagione. Avevano iniziato a propormi una serie di film di questo tipo, se avessi voluto avrei potuto lavorare facendo film adolescenziali almeno per cinque anni, ma è un genere nel quale rischi di chiuderti. La mia storia teen l’avevo raccontata, con tanto cuore e c’ero anche molto affezionata, non volevo raccontarne altre.

Skam si è rivelato un unicum nel racconto degli adolescenti, tu sei stata protagonista di Yolo, serie su RaiPlay che prova a raccontare i 30enni. Eppure nel raccontare questa generazione non c’è nulla che abbia la stessa efficacia, perché?

Il punto è che i produttori non sempre danno fiducia, nemmeno a Skam inizialmente l’hanno data, stava per finire su Youtube. Ci vuole un po’ di coraggio, però è una generazione che è piena di cose da poter raccontare, è una generazione lasciata ai margini, invece sarebbe interessante indagarla. Yolo l’ho fatta perché, già dalla scrittura, sentivo di avere delle affinità con il mio personaggio e inoltre mi faceva un sacco ridere, perché certe situazioni sono drammaticamente comiche. Si pensa ad una seconda stagione, ma forse non ci sono i finanziamenti, perché si era immaginata una cosa più ampia. È una serie fresca, scorrevole, davvero deliziosa, ma poco budget e poco tempo per raccontare al meglio.

Ludovica Martino nella serie Yolo

Ludovica Martino nella serie Yolo

Restando in tema di millennials, sono senza dubbio coloro che hanno subito una certa pressione sociale, soprattutto dal punto di vista professionale. Puoi dire di aver vissuto questa stessa condizione?

Quando all’inizio fai questo lavoro, se fai una serie di successo, un film carino, magari ti fanno i complimenti e poi ti chiedono “Brava, quindi ora che fai?”. Come se non fosse un lavoro, ma lo è e la mia speranza è quella di continuare. È una cosa fastidiosa, perché ci metti tutto l’impegno e sentirsi chiedere in continuazione quale sia il tuo lavoro, mette anche pressione, perché magari c’è chi commenta, “ma non può esserlo per sempre”, “ma non vi danno i mutui” “ma sei sempre in tournée per prendere due spicci” ed è massacrante. Invece di darti la carica perché è un lavoro particolare, essere sempre messi in dubbio dà fastidio.

E su cosa hai lavorato per stemperare questa frustrazione?

Ho cercato di essere forte del mio sogno. Non dovevo necessariamente diventare famosa, perché l’importante è fare l’attrice, esprimermi. Però è un lavoro in cui inizialmente non pagano bene, sono guadagni saltuari, magari stai un anno senza girare, poi torni sul set per due mesi, ma comunque non ti bastano i soldi per pagare l’affitto. La condizione dei lavoratori dello spettacolo in Italia non è affatto tutelata, tanto che potresti arrivare a pensare di fare altro. Con Unita stanno profilando delle migliorie, ma è un lavoro che tendenzialmente mette ansia, perché lo scegli sulla scia del sogno, ma è un lavoro come gli altri e devi mantenerlo.

L’ansia è dovuta al fatto di dover maneggiare la precarietà?

Non solo è un lavoro in cui c’è molta precarietà, ma ti mette a dura prova perché lavori con te stessa, con il tuo corpo, il tuo viso, devi stare sempre sul pezzo, ti dai sempre obiettivi da raggiungere, a volte te li impongono gli altri. Io ho cercato di dare poca importanza a certe cose, perché il mio obiettivo è sempre stato quello di fare solamente recitare, raccontare storie.

A proposito di raccontarsi. Hai fatto una scelta precisa, quella di rendere il tuo profilo social una vetrina per il tuo lavoro, ma non una sorta di diario. Parlare di te è qualcosa che non ti appartiene?

Non mi va che il mio Instagram sia unidirezionale, che abbia solo un certo tipo di contenuti. La verità è che sono una persona pigra, Instagram, TikTok non li apro quasi mai, lo faccio magari nei momenti in cui ho poche cose da fare, sono poco costante. A volte penso di non riuscire a comunicare, perché mi sento finta, non rientra nelle mie modalità, ma non è nemmeno una scelta strategica, anzi, mi sento in colpa perché vorrei chiedere scusa a chi mi segue. Ovviamente mi piace che sia una risonanza del mio lavoro, però ad esempio non riesco a catturare quel momento di Instagram opportunity. Sono un po’ analogica, faccio fatica a starci dietro, poi è anche una cosa che mi è scoppiata tra le mani, prima lo usavo più spesso anche a livello personale, fin quando avevo 30mila follower, poi quando con Skam sono aumentati, ho smesso.

Domanda di rito: nuovi progetti all’orizzonte?

Finalmente dopo cinque mesi ho vinto un provino, inizierò a girare a giugno e non potrei essere più felice di così.

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Fonte : Fanpage