Siamo affascinati da sempre dai ricordi e dall’arte del ricordare. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Da tempo ci interroghiamo se sia possibile recuperare ricordi persi, come si formano le memorie fittizie, o perché la musica a volte sia una così facile porta di ingresso al cassetto dei nostri ricordi. Qualche risposta a tutte queste domande c’è, e non si tratta – come sempre accade – di verità inamovibili, ma in continuo movimento. Fa parte di questo movimento anche uno studio che arriva da Yale che ha provato a rispondere alla domanda: perché ricordiamo quello che ricordiamo?
Come “scegliamo” cosa ricordare
Prima di immergersi nel tema e sentire cosa i ricercatori dietro allo studio hanno scoperto, è bene precisare il campo in cui ci muoviamo. Non parliamo di quel tipo di memoria che ricerchiamo attivamente – come può essere quella per cui ripetiamo un numero più e più volte o quella che si cerca di stimolare studiando – ma delle memorie (visive) che si formano senza che ne abbiamo coscienza o meglio intenzione. Quelle che, per dirla con le parole utilizzate dai ricercatori, sono il prodotto della nostra percezione. Si tratta di un aspetto della memoria studiato da tempo, come racconta a Wired Ilker Yildirim, assistant professor di psicologia a Yale e tra gli autori del paper: “Esiste un ampio corpus di lavori che studiano come la percezione influenza la memoria”. Non ci sono però risposte chiare su come questo avvenga, sul perché in sostanza alcune immagini che percepiamo sono più facili da ricordare rispetto ad altre, sebbene esistano diverse ipotesi.
Per esempio, ci spiega Yildirim, alcune immagini sarebbero “sistematicamente più facili da ricordare rispetto ad altre”, quindi la ragione andrebbe ricercata in una caratteristica intrinseca delle immagini stesse. Ma è anche possibile che le ragioni siano diverse e abbiamo a che fare con il modo del cervello di interpretare quel che vede. Così, prosegue il ricercatore, alcune teorie suggeriscono che quanto più sia profonda l’analisi percettiva quanto più forti saranno le tracce mnestiche (secondo la cosiddetta level-of-processing theory), o che alcune caratteristiche dell’attività cerebrale al momento della codifica di uno stimolo possono predire o meno la capacità di ricordarlo (in accordo al subsequent memory effect).
Un modello computazionale per studiare la memoria
Yildirim e colleghi hanno provato ad aggiungere il loro contributo alla questione utilizzando un modello computazionale. “Il modello è essenzialmente una realizzazione computazionale della level-of-processing theory degli anni ’70, secondo cui maggiore è l’errore di ricostruzione di un input visivo, più profonda dovrà essere l’analisi percettiva, portando a tracce mnestiche più forti”, ha spiegato il ricercatore. “Il modello si basa su una semplice premessa: se le rappresentazioni di un’immagine sono difficili da rimettere insieme dopo averle compresse (compiendo appunto errori di ricostruzione), allora verrà ricordata meglio”.
Quel legame tra percezione e ricordi
Per capire se le cose stessero effettivamente così – ovvero se ci fosse una correlazione tra errore di ricostruzione e memorabilità di un’immagine – gli scienziati hanno coinvolto nel loro studio anche una quarantina di volontari, per capire quali immagini e con quali caratteristiche venissero ricordate meglio. E, come da previsione, riprende Yildirim, le immagini che venivano ricordate con più precisione e più velocemente erano quelle con un valore più elevato di errore di ricostruzione. Nello studio sono considerate immagini con un basso errore di ricostruzione quelle per esempio che mostrano scenari montani o il corso di un fiume, al contrario appaiono più difficili da ricostruire quelle di una lavanderia, un mulino a vento o una camera da letto. E’ come se, ha avuto modo di precisare il ricercatore da Yale, le immagini più sorprendenti, più difficili da spiegarsi fossero anche quelle più facili da ricordare per il cervello.
Quanto osservato con i test di memoria sui partecipanti, sembra avere un corrispettivo anche a livello neuronale, e proprio nelle zone coinvolte nella percezione e nella memoria, come l’ippocampo e l’amigdala, ha spiegato ancora Yildirim. “Abbiamo osservato che maggiore è il ‘lavoro’ richiesto dal modello su un’immagine per ricostruire le sue rappresentazioni, maggiore è la frequenza di attivazione dei singoli neuroni nel cervello umano”. Ma non solo: “Lo stesso modello spiega anche come ricordiamo l’emotività dei volti. Le immagini delle espressioni facciali più difficili da ricostruire vengono ricordate come quelle più emotive”.
Come e dove potremmo rendere applicabili i risultati di studi come questi? Non è difficile immaginarlo, di questi tempi: basta guardare all’universo dell’intelligenza artificiale, concludono gli autori.
Fonte : Wired