Un anno dopo l’alluvione lo spirito “Romagna mia” è svanito nelle polemiche politiche

La prova di carattere dei romagnoli fece il giro del mondo un anno fa, quando dopo la devastante alluvione che ha causato 16 vittime, un migliaio di frane, 23mila sfollati e una decina di miliardi di danni (secondo le stime), andò in scena una reazione straordinaria. I volontari che soccorrevano gli allagati, liberavano gli scantinati, rimuovevano il fango, sistemavano marciapiedi e strade al canto di “Romagna mia” sono l’emblema di questa terra.

Quello spirito aveva pervaso tutti, anche le istituzioni e la politica che affrontarono in modo unitario il dramma. L’immagine di Stefano Bonaccini, presidente della Regione, e Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri, che si abbracciano e sorvolano insieme le zone alluvionate avevano fatto sperare tutti in una gestione positiva e unitaria dell’emergenza.

Sono bastate un paio di settimane per far svanire quel clima. E oggi, ad un anno di distanza, l’alluvione viene affrontata dalla politica più come un arnese per picchiare sull’avversario che per aprire una effettiva discussione su cosa è stato fatto (non poco, ad onor del vero) e cosa resta da fare (ancora tanto, per motivi oggettivi e non solo per inerzia).

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Se è comprensibile che i cittadini alluvionati abbiano un atteggiamento irritato, lo è molto meno che rappresentanti delle istituzioni locali, partiti e personaggi con ambizioni di “fare politica” si esercitino in una continua polemica su ogni questione. Anche la più piccola, anche quella più lontana dai poteri delle istituzioni. Alimentando divisioni anche tra la popolazione che fanno male a tutti.

Il dramma del 2023 ha dimostrato, se mai ce ne fosse bisogno, che le comunità locali devono profondamente ripensare il loro futuro, la programmazione cittadina, i servizi e le infrastrutture che servono. Ha insegnato che la manutenzione dei fiumi, la cura degli argini, il superamento di ideologie ambientaliste-animaliste fuori dal tempo (ci perdonino i difensori delle nutrie, ma non si possono sacrificare interventi in nome dell’assurda difesa di un roditore dannoso), non sono argomenti che appartengono a un solo partito politico.

L’alluvione ci ha dimostrato che il tempo non gioca a nostro favore e che siamo già in ritardo su molti investimenti. E di fronte a un modello di gestione dei nostri corsi d’acqua che è frazionato tra molti enti tra loro diversi e spesso gestiti da esponenti di forze politiche tra loro opposte, se non c’è unità di intenti i risultati non arrivano.

La politica, tutta e senza distinzioni, di fronte a questa tragedia avrebbe avuto l’occasione di battere un colpo d’ali e mostrare che esiste ancora chi sa anteporre l’interesse pubblico a quello del proprio partito. Ciò è avvenuto solo nell’imminenza dell’emergenza, ma poi tutto è tornato come sempre: uno scontro tra tifoserie.

Un anno dopo la tragedia avremmo voluto poter scrivere che le cose sono cambiate, che Comune, Provincia, Regione, Governo, Autorità di bacino, consorzi di bonifica, aziende pubbliche, forze politiche e amministratori stanno lavorando insieme per realizzare le opere, risolvere i problemi, dare risposte. Ci sono lodevoli eccezioni (il commissario per la ricostruzione, il generale Francesco Paolo Figliuolo, è una di queste, come lo sono la vice presidente della Regione, Priolo, e il vice ministro delle Infrastrutture, Bignami, per citarne tre tra i pochi); ma per i più non è così.

La Romagna, nonostante si sia brillantemente rialzata, presenta ancora ferite profonde. Anche sull’Appennino, dove le centinaia di frane hanno massacrato il territorio e accelerato lo spopolamento. I romagnoli non chiedono soldi, vogliono concretezza: come hanno fatto le tante attività ripartite dopo aver perso tutto, in molti casi più forte di prima. Dunque si realizzino le opere, si metta in sicurezza il territorio, si impari dagli errori del passato per non ripeterli in futuro; ma non si faccia campagna elettorale sulle disgrazie degli alluvionati.

Fonte : Today