Il decommissioning della centrale nucleare del Garigliano si avvia alle fasi conclusive e entro il 2035 Sogin dovrebbe finire di smantellare l’impianto di Sessa Aurunca. Siamo entrati nell’impianto, che sorge a cavallo tra la Campania ed il basso Lazio (la fascia di protezione è di circa 120 ettari): attorno alla centrale casertana livelli di radiazione quasi nulli, tra 0,2 e 0,7 microsievert/ora all’interno della sfera che ospita il vessel.
Realizzata tra il 1958 ed il 1963 dalla Senn (Società Elettronucleare Nazionale), la centrale nucleare del Garigliano si basa sul progetto di Riccardo Morandi (lo stesso progettista tornato alla ribalta delle cronache per il crollo dell’omonimo ponte a Genova nell’agosto 2018). Nel 1964 l’impianto va in funzione. La centrale, di modello BWR (Boiling Water Reactor) appartiene alla prima generazione di impianti nucleari, con una potenza di produzione elettrica di 160 MWe. Il suo reattore è stato il primo Bwr realizzato in Europa. Nel 1965 la proprietà della centrale è stata assunta da Enel che ha utilizzato l’impianto fino al 1978, anno in cui è stato fermato per manutenzione, per poi essere definitivamente bloccato nel 1982 e spento nel 1986. Nel 1999 la centrale viene acquisita da Sogin, la società pubblica che si occupa della dismissione degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, che avvia, nel 2012, il decommissioning dell’impianto.
Il nostro tour inizia dalla sala manovre al cui interno avveniva la gestione dell’impianto. Attraverso una scala ‘sospesa’ si accede ai locali dove, accanto ai nuovi pannelli in funzione per le attività di smantellamento in corso, sono presenti i pannelli e il desk, con manovelle e pulsanti per la gestione della centrale, che c’erano quando l’impianto era in funzione. Una tecnologia che è sì datata eppure dà l’impressione di entrare in un film di fantascienza. Nella sala a ferro di cavallo, spicca, tra i vari componenti, il pannello di monitoraggio e gestione del vessel, al cui interno erano presenti 208 elementi di combustibile, contenenti l’uranio arricchito (238 e 235), oltre alle barre di controllo e di sicurezza.
Due le misure che consentivano all’impianto di arrestarsi in caso di criticità: una con le barre di controllo che da sotto entravano all’interno del vessel, l’altra prevedeva il versamento di “veleno liquido”, cioè acido borico che veniva iniettato per catturare i neutroni. Quello che colpisce è l’assenza totale all’epoca di strumenti digitali con gli addetti che prendevano le loro decisioni sulla base di calcoli matematici svolti “a mano”. “Ci lavoravano persone altamente specializzate e preparate”, spiegano gli addetti di Sogin che ci accompagnano durante la visita.
Dalla sala manovre, attraverso un corridoio, si passa ai locali che ospitano il reattore. La grande sfera ha un diametro di circa 48 metri e uno spessore di circa 3 centimetri di acciaio. Qui avveniva materialmente la reazione nucleare. I locali sono completamente isolati sia staticamente (attraverso porte di piombo) sia con un sistema di ventilazione che sfrutta la decompressione ed impedisce all’aria di uscire in caso di falle. Si scelse la forma sferica per due motivi: uno perché era in grado di reagire meglio all’urto in caso di esplosione, l’altro di ordine estetico: “ingentilisce l’impatto visivo”.
All’interno della sfera c’è il vessel. A dicembre 2023 la testa del vessel è stata rimossa ed ora si sta procedendo alla dismissione dei componenti interni, chiamati internals, e delle barre di controllo metalliche. Le operazioni avvengono in una sorta di piscina, il cosiddetto “canale reattore”, con l’acqua che fa da schermo alle radiazioni garantendo sicurezza anche per gli operatori. All’interno il livello di radiazione è quello del ‘fondo ambiente’, tra 0,2 e 0,7 microsievert/ora.
“Tutte le attività vengono svolte da remoto attraverso sistemi robotizzati – spiega Luca Savino, responsabile decommissioning di Sogin per la centrale del Garigliano – I componenti vengono man mano rimossi e inseriti in contenitori di metallo per essere stoccati nei depositi temporanei (la centrale casertana ne ospita al momento tre, nda) in attesa di essere trasferiti nel deposito nazionale che andrà realizzato”, e della cui costruzione si occuperà la stessa Sogin. Al momento il decommissioning ha raggiunto quota 67 per cento ma le operazioni in corso all’interno dell’edificio reattore occupano un ulteriore 15% delle attività: “La fine delle operazioni è prevista per il 2035”, aggiunge Savino.
La maggior parte dei materiali viene recuperato. “Di 270mila tonnellate totali solo 6mila sono rifiuto radioattivo con un’enorme riduzione dei costi di gestione del rifiuto”, dice ancora il ‘caposito’ Savino. Sui costi, va detto, oltre a quelli di gestione, impattano per 390 milioni di euro gli appalti esterni.
6mila tonnellate di rifiuti radioattivi su 270mila totali
Ma come avviene il recupero? Nell’edificio turbine è stata allestita da Nucleco – società controllata di Sogin – la cosiddetta Waste Management Facility (WMF) al cui interno i vari “pezzi” dell’impianto – si procede circa 400 kg per volta – vengono trattati con la sabbia fino alla completa rimozione di elementi contaminati. Un altro modo per eliminare le parti ‘radioattive’ è quello della fusione con i rifiuti che vengono inviati nell’impianto svedese della Cyclife Sweden AB, dove vengono separate le parti non contaminate – che vengono recuperate per essere riutilizzate – da quelle contaminate. Circa un decimo del quantitativo inviato, sotto forma di “lingotti”, rientra in centrale dove viene stoccato nei depositi temporanei. “Un esempio del nostro impegno concreto per sostenere l’economia circolare per essere riutilizzato. In alcuni casi viene anche venduto”, dice ancora Savino.
Dopo il completamento delle operazioni di decommissioning la struttura della centrale nucleare non sarà abbattuta. L’edificio a sfera e quello che ospitava le turbine resteranno come patrimonio architettonico industriale. “Quando è iniziata la dismissione – spiega Savino – C’è stato posto il vincolo di non demolire i due edifici principali”. Al momento, comunque, non è stata decisa una destinazione finale chiara per riutilizzare le strutture che resteranno dell’impianto.
L’impatto ambientale esterno, invece, è “radiologicamente irrilevante”. Sogin gestisce un’articolata rete di sorveglianza ambientale e monitora, con controlli continui e programmati, la qualità dell’aria, del terreno, delle acque superficiali e sotterranee, dei prodotti ittici del Garigliano e del vicino litorale, nonché dei principali prodotti agro-alimentari del territorio: latte, frutta e verdura. La rete di sorveglianza ambientale, istituita, come per gli altri siti nucleari, al momento della costruzione, non si è mai fermata. Ogni anno Sogin effettua centinaia di misure su queste matrici mentre l’Arpa Campania provvede con una propria rete a svolgere un’analoga attività di monitoraggio e sorveglianza. Da sempre, i risultati delle analisi confermano impatti ambientali radiologicamente irrilevanti. I risultati dei monitoraggi sono inviati all’Autorità di controllo Isin e resi pubblici.
Fonte : Today