Quando gli animali sono capaci di curarsi da soli

A giugno di due anni fa Rakus, un orango di Sumatra, a Suaq Balimbing, nell’Indonesia occidentale, si è reso protagonista di un curioso comportamento. Ha preso delle foglie di una pianta locale, le ha masticate e se le è posizionate sopra una ferita che aveva sul volto, dopo averla trattata con il succo delle foglie stesse. Dopo qualche giorno quella stessa ferita si era chiusa, per poi sparire nel giro di un paio di mesi. Il trattamento aveva funzionato ed è diventato l’ultima, affascinante scoperta, sulla capacità di automedicarsi osservata nel regno animale. L’occasione per interrogarsi ancora sul come e perché i primati – soprattutto ma non solo, considerato che alcune forme di automedicazione sono presenti in altri animali – abbiano sviluppato questa abilità.

L’orango e la pianta officinale

Il caso di Rakus (per cui purtroppo, ammettono gli stessi ricercatori che lo hanno presentato nei giorni scorsi dalle pagine di Scientific Reports, non ci sono testimonianze video dirette del momento esatto dell’automedicazione ) è degno di nota perché l’orango ha utilizzato una pianta officinale. Realizzando una forma particolare di automedicazione, più evoluta se vogliamo. Nel novero infatti delle varie forme di automedicazione possono finire diversi comportamenti, ricordano i ricercatori del Max Planck Institute of Animal Behavior e della Universitas Nasional indonesiana: da quelli più semplici, che portano gli animali magari solo a evitare qualcosa che potrebbe danneggiarli, a masticare piante nei periodi in cui le infezioni da parte di vermi sono più frequenti, a spalmarsi e spalmare agli altri insetti sulle ferite. Comportamenti simili sono già stati osservati in diverse specie di primati e gli stessi autori ne fanno un lungo elenco, citando i casi di grandi scimmie – soprattutto oranghi e scimpanzé – visti nell’atto di ingoiare, masticare foglie e piante con possibili effetti terapeutici.

Un comportamento intenzionale

Le piante consumate – e gli esempi spaziano dalla Vernonia amygdalina, alla Dracaena cantleyi, allo Zingiber officinale (lo zenzero) – sono tutte piante medicinali, cui si fanno risalire proprietà ora analgesiche, antinfiammatorie, antivirali, antibatteriche, usate soprattutto nella medicina tradizionale. Qual è allora la novità del nuovo studio? Aver osservato un orango in natura usare deliberatamente una di queste piante officinali per curare una ferita. Qualcosa che secondo i ricercatori è profondamente intenzionale. “Il comportamento di Rakus sembrava essere intenzionale poiché trattava selettivamente la ferita facciale sulla guancia destra, e nessun’altra parte del corpo, con il succo della pianta” ha commentato dal Max Planck Institute of Animal Behavior Isabelle Laumer, prima autrice del paper “Il comportamento è stato anche ripetuto più volte, non solo con il succo della pianta ma successivamente anche con materiale vegetale più solido fino a coprire completamente la ferita. L’intero processo ha richiesto molto tempo”.

La pianta in questione, stavolta, è la Fibraurea tinctoria, è tipica del Sudest asiatico, e ad essa si fanno risalire proprietà antipiretiche, antibatteriche, analgesiche e antimalariche, tra l’altro. Gli oranghi potrebbero averla scoperta per caso. Toccando le foglie e poi toccandosi il corpo ne avrebbero apprezzato gli effetti, collegandoli alla pianta, imparando così a utilizzarla: è questa una delle possibili ipotesi in grado di spiegare quanto osservato, secondo Caroline Schuppli del Max Planck Institute of Animal Behavior, a capo dello studio.

Non solo oranghi e scimpanzé

Il caso di Rakus finisce dunque ad arricchire una già nutrita letteratura sul tema, che potrebbe aiutare a comprendere l’origine stessa dell’automedicazione nella nostra specie. Ma c’è anche chi crede che studiare la zoofarmacognosia – il termine con cui si identifica più l’automedicazione animale – possa avere anche applicazioni pratiche, per esempio potrebbe aiutarci a trovare nuovi trattamenti utili anche per la nostra salute. Il campo d’altra parte è vastissimo e, nelle accezioni più larghe del termine automedicazione, si potrebbero citare diversi esempi di animali che sembrano curarsi, più o meno intenzionalmente – non sempre le evidenze scientifiche sono solide – e che riguardano specie anche più lontane dei primati.

Così, rimanendo tra i mammiferi, c’è chi ha collegato il consumo da parte degli elefanti di terriccio ricco di minerali alla sua capacità di aiutare la digestione. O ancora: secondo un team di ricerca che parla italiano il porcospino consumerebbe piante con proprietà antiparassitarie nel periodo in cui questi animali sono più soggetti alle infezioni di zecche e pulci. Avrebbe la funzione di eliminare i parassiti anche l’abitudine di diversi mammiferi in Sudamerica – dagli opossum nani ai coati rossi – di leccare o strusciarsi a una pianta usata nella medicina tradizionale (​​Myroxylon peruiferum).

Guardando (evolutivamente parlando) ancora più lontano ancora, si è ipotizzato un comportamento di automedicazione anche per l’otarda maggiore, un grande uccello che predilige, in alcune stagioni, alcune piante dalle supposte proprietà antiparassitarie e antifungine. Non a caso: pare che a farlo siano soprattutto i maschi, suggerisce uno studio su Frontiers in Ecology and Evolution, e lo fanno quando è richiesto loro di essere particolarmente in forma per la stagione riproduttiva.

Fonte : Wired