Quando il commesso della Camera annuncia l’ingresso del presidente, la platea della Sala della Regina si alza (quasi) tutta in piedi; ma non per rendere omaggio al presidente di Montecitorio, Lorenzo Fontana, come da prassi. Bensì per accogliere e salutare il presidente del consiglio, Giorgia Meloni, a cui da protocollo non è normalmente tributato questo onore.
Potrebbe sembrare solo un dettaglio, ma invece è indicativo di come il pubblico che ieri pomeriggio ha preso parte al convegno organizzato dalle fondazioni De Gasperi e Craxi sul “premierato” (la riforma costituzionale voluta dal Governo e firmata dalla ministra Casellati) fosse già naturalmente orientata. Ad ascoltare costituzionalisti ed esperti favorevoli e contrari al testo, c’erano parlamentari e grandi dirigenti dello Stato, ma anche campioni dello sport, volti noti del cinema e dello spettacolo, imprenditori, lobbisti.
La sensazione, per chi come noi era presente, è che si trattasse dell’avvio della campagna a sostegno della riforma. Come conferma l’eterogeneità della platea, accuratamente selezionata dagli organizzatori sotto la supervisione – non ufficiale – di Palazzo Chigi. E questo ci dice molto di quanto Meloni voglia fare sul serio sulla madre di tutte le riforme.
Sì, perché cambiare la forma di governo è qualcosa che aleggia in parlamento fin dai primi anni della Repubblica, come ha ricordato l’ex ministro della Giustizia, dell’Interno e degli Esteri, Angelino Alfano, tornato a parlare di questioni politiche in pubblico nella sua veste di presidente della Fondazione De Gasperi. Proprio lui ha ricordato che il primo tentativo di dare stabilità ai governi è stato ad opera dello statista trentino tramite la legge elettorale del 1953 (che attribuiva il 51% dei seggi alla coalizione vincente) passata ingiustamente alla storia col nome che le attribuirono le opposizioni, “Legge truffa”.
Da allora politici e governi di ogni orientamento si sono cimentati sul cuore del problema del nostro ordinamento: rafforzare il governo senza sacrificare il parlamento, in altre parole sconfiggere l’instabilità dei governi.
Non è una priorità sentita come tale dagli italiani, anche perché l’attuale esecutivo è saldamente in sella grazie alla netta vittoria del centrodestra alle politiche del settembre 2022. Meloni, però, sa di essere un’eccezione nella storia repubblicana e vuole esercitare il diritto di provare a cambiare la Costituzione come hanno fatto quasi tutti i suoi predecessori.
Sbaglia chi si limita a contrastare la riforma Meloni-Casellati gridando alla “deriva autoritaria” (a cui non crede nemmeno chi grida). Le questioni critiche, semmai, sono altre.
Premierato, cosa cambia
In primo luogo il contenuto della riforma. È possibile che funzioni meglio un sistema con elezione diretta e qualche potere in più per il presidente del consiglio, ma che lascia il intatto il sempre più difettoso bicameralismo ‘perfetto’ del nostro parlamento? Improbabile.
E poi: perché introdurre l’elezione diretta del premier se poi, in caso di dimissioni, potrebbe esserne scelto un altro senza passare dalle urne? Logica vorrebbe che fossero sempre i cittadini ad essere chiamati a scegliere il sostituto di un premier che loro stessi hanno eletto.
C’è poi la questione della nuova legge elettorale. Che caratteristiche avrà? Restituirà ai cittadini la possibilità di tornare a scegliere da chi essere rappresentanti in parlamento, o continuerà ad attribuire questa facoltà prevalentemente ai leader dei partiti?
Infine il tema forse più rilevante: “come” portare a compimento la riforma. Meloni ha detto di non avere paura del referendum popolare. La storia ha già dimostrato che il referendum tende a trasformarsi in un test sul governo più che in una consultazione sui contenuti della riforma. Forse sarebbe meglio cercare l’approvazione dei due terzi del parlamento?
Ma forse è proprio qui che sta l’ambizione di Giorgia Meloni: arrivare là dove tutti gli altri prima di lei hanno fallito. Il cammino è appena cominciato.
Fonte : Today