Un paio di fidanzati fa sono stato con un ragazzo che mi ha spezzato il cuore. Non so nemmeno se definirla una relazione, visto che sarà durata una ventina di giorni neanche. Ci siamo conosciuti in pubblico, uno sguardo, un colpo di fulmine, pochi giorni dopo abbiamo mollato i rispettivi partner, tre settimane dopo mi ha mollato lui in un pozzo di lacrime e disperazione. Era tutto irrazionale ma mi pareva di non poter sostenere una vita senza l’eventualità del nostro amore, che probabilmente era esistito solo nella mia testa (oppure neanche lì). Quindi gli ho scritto tanti, tantissimi messaggi: mi manchi, ripensaci, ci vediamo? Poi un pomeriggio mi sono presentato davanti al suo ufficio: non volevo che mi vedesse, volevo solo guardarlo da distanza, anzi ovviamente in realtà la mia intenzione era proprio quella di incontrarlo e quindi mi ha beccato. Mi ha guardato con tenerezza, abbracciato, addio. Ho vissuto quel momento vedendomi da fuori come se fossi il regista di una pessima rom com. Il flop al botteghino della mia immaginazione ferita è servito però a farmi desistere: non l’ho mai più contattato né visto, il cuore è guarito appena è arrivata l’estate successiva.
Continuo però a pensare a quella scena patetica e pericolosa che avevo messo in piedi da quando ho finito Baby Reindeer, indiscutibilmente la serie del momento, con grande sorpresa di chiunque. Con nessuna sorpresa mia, invece, questi sette episodi mi hanno avvinto, tormentato, stupefatto. Da amante del dietro le quinte televisivo e dei meccanismi più raffinati di narrazione, trovavo soprattutto sorprendente quanto sovrapposti e sovrapponibili fossero i piani di realtà: Richard Gadd, il creatore della serie, ha vissuto sulla sua pelle la vicenda raccontata qui, ha sublimato il tutto in uno spettacolo di stand up comedy da cui ha tratto appunto questa serie in cui il suo personaggio a sua volta ri-racconta la storia attraverso battute (e una sequela autodistruttiva di bugie e non-detti). Per di più, una trama che mette assieme amore, ossessione, social media, rappresentazione di sé è una specie di tunnel da cui difficilmente si riesce uscire, perlomeno indenni.
Quindi ho fatto binge watching di Baby Reindeer, ne ho parlato con chiunque, l’ho consigliata anche ai sassi, ho scritto articoli con un’ossessione quasi simile a quella seriale (la SEO è la Martha che noi giornalisti meritiamo) in una specie di bolla quasi inespugnabile. Poi, però, sono cominciati i dubbi. Ho iniziato a ripensare a quello che avevo visto. Parlarne in continuazione con persone assolutamente random, dalla collega in redazione al tipo che in metro mi stava spoilerando il finale quando ancora non l’avevo visto, in qualche modo in me era scattato un meccanismo sotterraneo di autoconsapevolezza. Cosa avevo visto in verità? La vittima era una vera vittima? La stalker una vera stalker? La serie era una realtà esasperata che lodevolmente squarciava punti di vista inediti nel nostro modo di vivere le relazioni oppure un meccanismo furbo di immedesimazione e voyeurismo? Ma soprattutto: qual è il motivo profondo per cui Baby Reindeer ha avvinto me così come tanti altri?
Una discesa nel (nostro) abisso più profondo
Nel corso delle settimane ho letto le storie più disparate legate a questa serie. C’è stata l’attrice transgender che ha raccontato come Gadd le abbia proposto un provino per la parte della fidanzata Teri e poi l’abbia frequentata per un certo periodo, mostrando il lato feticizzante del suo atteggiamento. Ci sono state le polemiche sulla corporeità di Martha (e quindi dell’attrice Jessica Gunning): chi vedeva finalmente l’opportunità di rappresentazione di un corpo grasso sullo schermo è stato subito redarguito da chi sosteneva che invece questa era l’ennesima riproposizione di uno stereotipo venefico (grasso uguale cattivo, uguale marginale, uguale fuori sistema). E poi ovviamente c’è stata la perniciosa campagna online per cercare chi fossero le vere persone che hanno dato il via a questi personaggi di finzione: la vera donna che ha ispirato Martha è stata trovata in pochissime ore, attraverso il suo profilo Twitter/X. Mi sono ripromesso di non andarlo a spulciare. Poi l’ho fatto. Mi sono ripromesso di non scrivere il suo nome in nessun articolo. Poi l’ho fatto (dopo che lei si è svelata ai giornali perché vuole ottenere giustizia, ma tant’è).
Più la tana del Bianconiglio, o meglio della piccola renna, si faceva profonda, più mi ci infilavo senza scampo, e più ne venivo respinto. Cos’era in questa storia così ipnotica che mi faceva sentire quel disagio sempre crescente, quella sensazione di disagio quasi morale? Forse il fatto che Martha sono (stato) io. Ma lo siete stati probabilmente anche voi, prima o poi nella vita. Siamo stati anche Donny, insicuro artista mancato e violata anima ferita che non riesce ad allontanare da sé il dolore e il pericolo. O forse siamo sempre stati entrambi, vittime e carnefici, ossessionati e ossessionanti, inseguitori e inseguiti. La persona da compatire e la persona che compatisce. Non posso fare a meno di pensare al me di qualche anno fa, sotto quella pioggerellina sfinente vicino alla Stazione centrale di Milano, che aspetta di far scattare il trappolone alla persona che solo pochi giorni prima gli aveva chiesto spazio e libertà. Quanto è mancato a che mi trasformassi in una Martha assillante, sregolata, insidiosa? Cosa mi ha salvato dal cadere nel buco nero della mia ossessione?
Fonte : Wired