La firma di Elly Schlein al referendum voluto dalla Cgil per l’abrogazione del “jobs act” segna uno spartiacque nella vicenda politica del Partito democratico e del centrosinistra italiano. Un sigillo definitivo sulla storia che l’ha preceduta, in particolare sugli anni dei governi a guida Pd tra il 2014 e il 2018 (con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi).
Uno dei totem di quella stagione fu proprio il “jobs act”, con la cancellazione dell’articolo 18 e altri paletti che tenevano legato il mercato del lavoro in Italia a schemi superati dai tempi. Numeri alla mano, si può dire con obiettività che quel pacchetto di norme ha prodotto impatti positivi sull’economia italiana.
Tanto che nessuno dei governi successivi è intervenuto per cancellarlo: nemmeno i due guidati da Giuseppe Conte, che pure ha firmato (prima di Schlein) il referendum anti-jobs act voluto da Maurizio Landini.
Schierare il partito contro la riforma del mercato del lavoro più importante degli ultimi anni e targata proprio Pd, è tuttavia una mossa che si inserisce in pieno nella dottrina-Schlein: riportare i Dem verso la sinistra identitaria e nostalgica. Emblema di questo disegno è la scelta di usare il volto di Enrico Berlinguer sulla campagna di tesseramento 2024.
E la parte “riformista, cattolica, popolare” del Pd? Al momento è destinata a diventare (o rimanere?) una minoranza da tutelare – in nome del mito dell’unità del partito – concedendo qualche ruolo di peso e alcuni posti di rilievo nelle liste elettorali. Ne è un esempio la candidatura alle Europee come capolista Nord-Est di Stefano Bonaccini.
Chi si chiede se la linea Schlein porterà il partito ad essere competitivo per il governo del Paese, sbaglia punto di osservazione; perché non è l’obiettivo di oggi per la segretaria, che vive le Europee come un viatico per consolidare la presa sul partito e confermare la trasformazione del Pd verso una riedizione del Pds (il Partito democratico della sinistra che raccolse l’eredità del Pci dopo la fine dell’Urss).
In Europa i partiti socialisti ‘fratelli’ del Pd si muovono diversamente. Il cancelliere tedesco Scholz ha vinto e governa in continuità con le tesi di Angela Merkel; in Francia il nuovo leader socialista Glucksmann sta rilanciando il partito con un’agenda che a tratti ricorda il Macron della prima ora; il candidato socialista alla presidenza della Commissione UE è il lussemburghese moderato Nicolas Schmit. Qualcuno cita come esempio lo spagnolo Sanchez; che governa, però, con l’appoggio decisivo degli indipendentisti catalani a cui ha promesso l’amnistia (di dubbia costituzionalità) per il tentativo di secessione compiuto nel 2017. Non proprio un modello da seguire.
C’è poi il caso del Regno Unito, dove domenica si è registrato l’ennesimo trionfo dei laburisti alle elezioni locali (tra cui Londra). Successi scontati, visto che nei sondaggi il divario tra Labour e Tories è di 20 punti. Quel che è interessante è come il segretario, Keir Starmer, stia lastricando di successi la strada che probabilmente lo porterà a diventare primo ministro dopo le prossime elezioni generali (entro gennaio 2025). Un percorso imperniato sul disconoscimento totale del suo predecessore, Jeremy Corbyn, e della sua linea politica.
Cosa succede nel Regno Unito dopo la batosta presa dai conservatori alle elezioni
Quella di Corbyn fu una traiettoria molto simile all’impostazione del Pd di oggi: egli aveva imbracciato, infatti, tutto l’arsenale ideologico della sinistra novecentesca e attaccato e aspramente criticato la stagione riformista di Tony Blair e della sua “terza via”. Crebbe di qualche punto nei primi tempi, ma arrivati alle elezioni generali del 2019, Corbyn collezionò la peggior sconfitta laburista dal 1935. Con l’arrivo di Starmer, il Labour ha ripreso e aggiornato le posizioni del blairismo. Perché anche nel Regno Unito come nel resto d’Europa e del mondo, la sinistra è competitiva solo quando guarda al centro e al futuro.
È certamente possibile che l’Italia possa fare eccezione; ma al momento non sembra probabile.
Fonte : Today