E anche se ancora non è del tutto chiaro il meccanismo di trasmissione del virus (ci torneremo a seguire) il consumo di latte crudo potrebbe essere un rischio anche per il virus dell’aviaria. Per motivi diversi. Sia perché il latte crudo ha mostrato di contenere abbastanza virus sia perché quando alcuni gatti se ne sono cibati sono morti, riferisce il New York Times citando diversi esperti intervenuti sul tema e un recente studio sui felini. Non è la suscettibilità dei gatti alla malattia, notano gli autori, a essere una novità; l’aspetto più importante è la conferma che nel latte crudo ci siano grandi quantità di virus, e che questo possa con probabilità diventare veicolo di trasmissione dell’infezione tra mammiferi diversi. In realtà, commenta a Wired Calogero Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo (EURL) dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), la via alimentare nei gatti e altri carnivori era già nota, soprattutto nei cosiddetti spazzini, animali che si cibano di carcasse. Al punto che nei programmi di sorveglianza degli allevamenti domestici il monitoraggio si estende anche a eventuali cani e gatti presente, ricorda a Wired Italia.
Quale la situazione in Europa
Se negli Stati Uniti la situazione è questa, in Europa? Secondo quanto riferisce l’ultimo aggiornamento dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), il virus non è stato trovato nelle mucche dell’Unione europea, né dunque nel loro latte, e il rischio per l’uomo al momento rimane contenuto. “In Europa non sono stati trovati quadri sintomatici nei bovini, e al momento questo esclude anche la presenza di una sorveglianza strutturata nei bovini” commenta Terregino “nel caso in cui la situazione dovesse cambiare potranno essere implementati programmi specifici di sorveglianza”. Qualcosa di analogo insomma a quanto viene già condotto per gli uccelli, in cui il monitoraggio – attivo, con la ricerca del virus in programmi di cattura e passivo su animali morti, con sintomi sospetti, sia su specie selvatiche target che domestiche – prosegue tutto l’anno, intensificandosi nell’autunno-inverno, prosegue l’esperto. “Dobbiamo però capire cosa ha generato questo evento di spillover nei bovini, ci sono delle dinamiche che devono essere chiarite”, riprende l’esperto.
Il virus nei mammiferi: da dove, quali i rischi?
Alcuni fattori già noti forniscono possibili spiegazioni, ma solo parziali. Negli Stati Uniti per esempio, la circolazione del virus nel pollame e negli uccelli selvatici è più compromessa, O ancora, sono presenti allevamenti estesi, su grandi spazi. “Questo per una semplice questione di probabilità aumenta il rischio di passaggio del virus dagli uccelli ai bovini” riprende Terregino “anche se non è chiara la dinamica che ha generato questo passaggio. Potrebbero essere coinvolte esposizione a feci infette, così come il contatto con uccelli che si cibano dei parassiti bovini. Ma il fenotipo dell’aviaria coinvolto, il clade 2.3.4.4.b, gira da tempo nell’avifauna e nel pollame e da quello che sappiamo a oggi non ci sono motivi particolari che facciano pensare che il virus sia particolarmente adatto ai bovini e ai mammiferi”. Né, guardando all’uomo, che per ora ci sia il rischio di una trasmissione dell’influenza aviaria sostenuta dagli animali. I casi registrati sono dovuti per contaminazione con esposizioni ambientali elevate del virus, come appunto potrebbero esserci nelle feci o nel latte, per inalazione o contatto, come è verosimile sia accaduto per il caso in Texas.“Se il virus è molto abbondante è possibile anche contagio per via inalatoria. Per ora non possiamo sbilanciarci sul rischio di contagio per via alimentare” prosegue l’esperto “anche considerando che in alcuni paesi, come quelli dell’Asia, in cui il virus ha circolato non è esclusa l’abitudine di consumare uccelli potenzialmente contaminati. Ma non ci sono state a oggi evidenze di contaminazione alimentare come accadde per altri mammiferi carnivori”. Molto raro è invece il contatto da persona a persona, e solo in contesti di stretta vicinanza, ricordano i Cdc.
Alcuni esperti tuttavia interpretano la circolazione nelle mucche come una conferma della capacità del virus di essersi ormai adattato fin troppo bene nei mammiferi, più e più volte e che questo potrebbe essere l’anticamera che consenta al virus di stabilirsi prima o poi anche nell’uomo. Questo infatti è quanto ha dichiarato all’Adnkronos salute Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia (Siv-Isv), non escludendo che i casi di contagio umano, per ora limitati, possano essere in realtà molti di più e sfuggiti magari per sintomatologie ridotte.
Fonte : Wired