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Gennaro Di Napoli, straordinario campione azzurro nel mezzofondo degli anni 90, ha rivissuto a Fanpage la sua carriera. Tra vittorie, Olimpiadi, infortuni, gli aneddoti sulla bella vita, la piaga del doping e di un Federazione incapace. Che lo ha perso per sempre: “Ho dato tutto all’atletica, non mi è ritornato assolutamente nulla”.
Gennaro Di Napoli è ancora presente negli almanacchi della storia dell’atletica italiana dove detiene ancora il primato nazionale dei 1.500 (in 3’32″78), del miglio (3’51″96) e dei 2000 (4’55″0), conquistati più di trent’anni fa. E nel suo palmares spiccano anche 2 ori mondiali indoor, 1 argento europeo, 1 oro europeo indoor, 1 oro ai Giochi del Mediterraneo 1 oro agli Europei di cross e un oro agli europei juniores nei 1.500.
Un curriculum conquistato negli strepitosi anni 90, quando Di Napoli imperversava in pista, spesso vincendo, in ogni occasione: “Non mi sono mai risparmiato, sono sempre stato un generoso in tutto e con tutti. Ero un talento puro, naturale”, ricorda parlando in esclusiva a Fanpage. Eppure tutto ciò fa parte di un passato che non fa più parte della quotidianità dell’ex campione azzurro: “Un mondo che non mi merita, ingrato, a cui ho dato tutto e nel momento di ricevere non ho trovato nulla”.
A ruota libera, Di Napoli racconta una carriera affascinante ma anche l’amarezza del lato oscuro di uno sport intriso di personaggi strani, storie di doping, di una Federazione incapace, di tradimenti dentro e fuori le piste di atletica. Che lo hanno per sempre perso. Senza dimenticare, con dovuto orgoglio, di esserne stato uno degli interpreti più sani, puliti e che ne ha cambiato i parametri anche nel modo di viverne la celebrità.
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Gennaro Di Napoli e l’atletica, hai mai avuto un punto di riferimento quando hai iniziato a correre?
No, non avevo miti, correvo per me stesso. Io ho corso per libertà, per me. Perché sapevo di poter vincere, perché mi faceva star bene, senza troppi pensieri per la testa. Non sono mai stato uno storico dell’atletica, sotto quell’aspetto ero piuttosto leggero, senza pesi, paragoni o altro.
Eppure c’erano nomi importanti a quel tempo, come Cova.
Sì c’era certamente chi mi piaceva più e chi meno. Ad esempio non gradivo Alberto: era un po’ un ragioniere, poco talentuoso che era riuscito a vincere comunque tanto, grazie al sacrificio, alla fatica e alle rinunce, anche se poi sappiamo tutti i retroscena su Alberto che io personalmente non ho apprezzato. Sicuramente mi piaceva molto di più uno come Stefano Mei, come modo di correre, talentuoso, elegante e pulito. Ma nemmeno Stefano seguivo come riferimento.
Esisteva dunque solo Di Napoli? Un po’ presuntuoso…
No, consapevole. Ero nato con una grande fortuna che è sempre stato il mio talento. Un talento innegabile anche se non mi è servito poi tanto nella mia carriera visto che ho vinto, ma poco rispetto a ciò che mi sarei meritato.
Cioè?
A distanza di anni ho rivisto tutto, anche attraverso i filmati, i documentari, le storie che si sono raccontate e mi sono reso conto che io ho fatto un’atletica completamente diversa da tutto ciò che mi girava attorno. Ti faccio un esempio che dovrebbe essere chiaro su tutto: nel mio staff non c’è mai stata la figura del dottore. Non avevo la figura del dottore che invece altri avevano e forse è mancato quel “qualcosa”, ma non rinnego nulla: io e il mio allenatore abbiamo fatto tutto con professionalità, puntando sul mio grande talento naturale, sacrifici e spensieratezza.
Quando dici “è mancato quel qualcosa”, cosa intendi?
Andate a rivedervi i documentari sull’argomento, quelli su Ben Johnson, su Schwarz. Andate a rivedere il Premio Oscar “Icarus”.
Ti riferisci al doping?
Assolutamente sì.
Tu non ne hai mai fatto uso?
Ma guarda, a me e al mio allenatore non è mai passato nemmeno nell’anticamera del cervello solo pensare di fare uso di quelle pratiche. Io avevo 50 di ematocrito in modo naturale, organicamente ero esplosivo. Certo, mi facevo il classico culo, non mi è stato mai regalato nulla, ma non ho mai fatto uso di nulla. Più che il dottore per doparmi, forse mi sarebbe servito il dottore per non rompermi.
E gli altri?
Era un qualcosa di cui si usufruiva, indubbiamente. C’erano atleti che aumentavano la loro performance anche del 10-12%… l’avessi fatto io, oggi sarei all’Isola dei Famosi, ricolmo di successi, richiestissimo per interviste e altro. Invece son qui e non sono felice di come sono andate le cose.
In che senso?
Ho visto tanti atleti marci, senza talento, vincere. Ho visto gente strana presente nei meeting, negli spogliatoi, attorno alle gare. Una caterva di spagnoli vincere quando non avrebbero potuto nemmeno portarmi la borsa in pista… tutta gentaglia che all’improvviso correva forte. L’atletica sporca io so perfettamente chi l’ha fatta: sappiamo tutto e si è capito tutto.
Un rammarico sull’argomento?
Nessuno, solo una considerazione: io ho fatto 20 anni di carriera, ho vinto dove dovevo vincere. Poi ho iniziato a perdere dove dovevo vincere e ho iniziato a non capirci più niente.
E oggi, com’è questo mondo?
Lo seguo poco, dico la verità ma mi basta vedere gli highlights delle mie corse per capire chi è bombato e chi è pulito. Basta che vedo correre gli atleti in pista e ti assicuro che anche oggi di cose strane ce ne sono.
Come hai vissuto l’atletica?
A 360 gradi. Io mi sono sempre concesso quando l’atletica chiamava, non mi sono mai tirato indietro quando avevano bisogno di me: strada, campestre, 800, 1500, 10 mila metri. Quando chiamavano, Di Napoli rispondeva sempre presente. Sono stato sempre disponibile, ma lo facevo col cuore senza pretendere nulla in cambio. Se avessi avuto 10 euro per tutti gli eventi di beneficienza in cui mi sono concesso oggi sarei miliardario.
Chi era Gennaro Di Napoli?
Un atleta arrivato da una famiglia povera, ma talentuoso, votato anche al sacrificio. C’era però sempre un filo conduttore: non mi sono mai fatto mancare nulla, se non mi divertivo io non correvo forte. E quando ho iniziato a non divertirmi più non sono arrivati i risultati, come per il ’92.
Ti riferisci alle Olimpiadi di Barcellona?
Sì, perché ci provai. Ma quando decisi di escludere il divertimento e tutto il resto, non è andata bene. Infatti, e non è un caso, ho provato a concentrarmi solo sull’obiettivo e mi sono rotto e da lì è iniziata tutta una serie di problemi. Con me non funzionava quel tipo di lavoro.
Anche perché tu eri anche nella tua vita privata un atleta diverso dagli altri…
Sì, me la sono goduta fino in fondo. Spendevo e spandevo, con generosità perché non ho mai dimenticato chi stava con me, lavorava con me, per me faceva sacrifici e rinunce anche saltando ferie e vacanze.
Difficile stare con i piedi a terra, come lo hai gestito?
Con naturalezza. Ero un atleta umile, ma vivendo a contatto con la Milano degli anni 90 non si poteva non approfittarne e io stonavo nel mondo dell’atletica. Andavo nei raduni presentandomi con belle macchine, vestito bene, alla moda, tra gente che viveva in tuta 24 ore su 24.
Raccontaci qualche aneddoto di quegli anni d’oro
Sono stato uno dei primi atleti ad andare sui giornali, anche all’estero mi conoscevano e mi riconoscevano. Ero conosciuto nell’ambiente con un nome particolare.
Cioè?
Per tutti ero il Conte, in un mondo in cui un fenomeno come Carl Lewis viveva praticamente con la tuta della Santa Monica, inguardabile. C’era chi mi prendeva in giro ma poi c’era soprattutto chi mi faceva gli ordini per avere nei meeting successivi quell’abito firmato, quell’accessorio elegante. Ero un pusher della moda. E poi c’era Paul Tergat che quando mi vedeva diventava matto per me e le mie macchine: ogni volta ci saliva su. Ma ero generoso anche con i miei avversari.
Ad esempio?
Un Niyongabo che vince le Olimpiadi di Atlanta nel 1996 semplicemente perché io l’ho portato dal mio fisioterapista. Venuste aveva una lesione agli addominali e non riusciva a guarire pensando che fosse pubalgia. Io, suo rivale, lo porto dal mio fisioterapista che lo mette a posto e poi va a vincere l’oro nei 5 mila. Poi ho migliaia di altri aneddoti che non riguardano l’atletica ma il jet set.
Dove eri diventato un personaggio precorrendo i tempi. Fosse accaduto oggi?
Se avessi avuto i social network in quel momento avrei spaccato (ride). A me piaceva ballare, divertirmi, la musica. Ho sempre avuto belle macchine, belle donne, sono stato fidanzato con una Miss Italia, mi piaceva il mondo della moda. Mi invitavano nelle principali trasmissioni TV, dal Festivalbar ai programmi di Mike Bongiorno, Jerry Scotti, partecipavo alle prime cinematografiche.
E oggi, che atleta saresti stato?
Oggi? Mah, se avessi avuto le scarpe in carbonio… non ce n’era per nessuno. Riguardando i video delle mie corse, rivivendoli e piangendoci anche sopra, ti devo dire che ero davvero forte. Non c’è altra parola, ma erano altri tempi: lì, il carbonio ero io.
Tanto che alcuni tuoi record durano ancora a distanza di 30 anni…
Quello dei 3.000 è stato battuto di recente, con Yeman Crippa ma quello che resiste ancora è dei 1.500 metri, quello del miglio e dei 2.000. Comunque credo che sia arrivato il momento di poterli battere: dopotutto è un record facile quello dei 1.500. 3’32” oggi è un tempo che si deve battere, non posso pensare che un atleta italiano non sia pronto.
I momenti più belli?
Il mio primo campionato europeo vinto a Genoa, indoor, l’inizio di un periodo magico. Ero elegante, presente, esplosivo, resistente, veloce: c’era tutto in quella prestazione. E da quel giorno lì fino a Barcellona avevo vinto tutte le gare in cui partecipavo. Un percorso che mi avrebbe dovuto portare alle Olimpiadi per trionfare. Forse non l’oro, sicuramente una medaglia.
E il tuo rapporto con le Olimpiadi, si può riassumere in conflittuale?
A Seul (1988, ndr) ero forse troppo giovane e anche lì ci arrivai con una micro frattura alla tibia e avevo gran parte della preparazione. Poi c’è stata Barcellona, dove mi sono rotto il piede dieci giorni prima ed è andata come sappiamo tutti. Poi, ad Atlanta ’96 mia moglie perse il mio primo figlio al sesto mese di gravidanza mentre ero in raduno: altra occasione persa perché mi presentavo sui 5 mila poi vinti da Niyongabo.
E ora, qual è il rapporto di Di Napoli con l’atletica?
Non c’è, io in questi anni ho lavorato per dimenticare. Dal 2001 non c’è stato più nessuno che mi abbia chiamato, coinvolto… L’atletica non mi ha lasciato niente, non mi ha dato nemmeno il futuro e quindi io oggi a quel mondo non devo niente. E’ forse l’atletica che dovrebbe dirmi grazie, perché ciò che ho fatto è scritto, nero su bianco con numeri e record.
Ma cosa accadde?
Tante cose. Feci il manager per un gruppo sportivo militare mi ha fatto smettere mandando una lettera a tutti i miei atleti. Ho portato un primissimo progetto di tesseramento federale Ho provato a dare visibilità con una web tv e web radio, spendendo tutto ciò che avevo guadagnato in questo progetto. Parlai con i politici dello sport di allora, con i presidenti, evidenziando che mancava visibilità sull’atletica. Zero assoluto. Capace solo di rubarti le idee.
A cosa ti riferisci?
L’idea del tesseramento mi venne in mente perché la Federazione potesse guadagnare. Ma mi hanno lasciato fuori, fregandomi però il progetto e non facendomi partecipare nemmeno alla gara d’appalto. Oggi c’è la web tv sull’atletica? Bravi, io l’avevo creata già oltre vent’anni fa…
Un mondo marcio e corrotto?
Questa è l’atletica leggera con cui mi sono confrontato, di gente che ti ruba le idee, che non ti ascolta né cerca gli ex campioni che possono dare molto. Io ho dato tutto, ora non mi faccio più fregare. Non mi concedo più anche se è troppo tardi. Quasi tutti hanno approfittato di me.
Nemmeno se ti chiamasse il tuo grande amico Stefano Mei, oggi presidente Fidal?
No. Stefano ha tirato dentro già qualcuno, anche se in sordina come consulenze esterne. Ci siamo parlati, gli ho chiesto la cortesia di lasciarmi fuori. Io sono felicissimo: è la persona giusta nel posto giusto e quando si candidò io lo supportai in prima persona. Penso possa fare bene, ridare dignità all’atletica italiana.
E ora?
I segnali già si vedono, Stefano piccole grandi cose le ha già fatte usando semplicemente intelligenza e buon senso. Cosa mancava? Il finanziamento perché i nostri atleti potessero allenarsi al meglio? Ha preso i soldi che gli altri spendevano in cene e altro e li ha rigirati. Ecco che lo Jacobs di turno ora può andare ad allenarsi in America, ad esempio.
Un esempio negativo che si ripercuote anche sugli atleti?
Ma guarda ho poche speranze e ti dirò anche una cosa in più: io ho anche provato a scrivere direttamente anche agli atleti di adesso, sui social e via mail. Non ti rispondono nemmeno, sono strafottenti, arroganti, supponenti. Perdonami, ti contatta Gennaro Di Napoli, un campione… Sì certo, sono forti, bravi, belli, sono social, ma non hanno spirito, non hanno entusiasmo. L’unico che ho visto avere umiltà e gentilezza è Yeman Crippa. Quando ci vediamo mi saluta e ringrazia, si impegna nel suo senza particolari attenzioni.
Mancanza di riconoscenza?
Sì, è un mondo che non mi rappresenta più, un ambiente che dovrebbe ricordare e invece ha dimenticato. Di Napoli? Non ha vinto un’Olimpiade… cercate altrove. Anche perché non ho bisogno di questa atletica, io la mia Olimpiade l’ho vinta: è la mia famiglia.
Fonte : Fanpage