Vigliotti: “La distribuzione del venture capital italiano è troppo squilibrata, inutile un’autostrada senza il Sud”

Bravi a inventare, meno a raccogliere i frutti delle nuove scoperte. Gelsomina Vigliotti, dal 2021 vicepresidente della Banca europea per gli investimenti, guarda all’evoluzione del mondo startup italiano, analizzandone i lati positivi e i – tanti – limiti. “Siamo un Paese ricco di scoperte e innovazioni, ma ci manca il passaggio cruciale: trasformare queste idee brillanti in imprese”, sostiene Vigliotti. “C’è un ruolo fondamentale del gruppo Bei nel supportare lo sviluppo di un ecosistema innovativo e competitivo”, spiega la sua vicepresidente. Rispetto alle startup e alle piccole e medie imprese, la differenza principale tra gli interventi della Banca europea per gli investimenti e il Fei sta nel tipo di operazioni. La prima sostiene in modo diretto startup già consolidate, mentre il Fei investe in fondi che finanziano imprese. Lo scorso anno, osserva, “il Fei ha destinato 1,3 miliardi di euro in Italia. Solo Romania, Germania e Francia hanno ricevuto di più”.

Le parole di Vigliotti arrivano a poche settimane dai dati degli investimenti in startup italiane nel primo trimestre del 2024, che, come riportato da Italian Tech, sono di circa 275 milioni di euro, in crescita tendenziale di quasi 100 milioni sul 2023. Un anno, quello da poco concluso, in cui le risorse dedicate all’ecosistema innovativo italiano (1,18 miliardi di euro) hanno subito un fisiologico rallentamento rispetto alla crescita rilevante registrata nel 2021 e 2022, rispettivamente 1,4 e 2,3 miliardi.

Una battuta d’arresto da diversi analisti segno di una maturazione del venture capital italiano. È cosi?

“La raccolta fondi in Italia nel 2021 e 2022 ha raggiunto livelli molto elevati, grazie anche alla presenza di Cdp Venture Capital e a una serie di deal di grandi dimensioni. Le analisi del Fei suggeriscono però che il rallentamento nel 2023 a livello mondiale è stato causato da un contesto macroeconomico più complesso. L’aumento dei tassi di interesse ha reso più difficile la raccolta di fondi e le prospettive di recessione economica hanno portato a una diminuzione delle valutazioni, rendendo meno attraenti le strategie di uscita. Nel contesto italiano, i fondi di venture capital con almeno una sede in Italia sembrano aver seguito la stessa tendenza”.

Per quest’anno, invece, quali sono le prospettive?

“Le aspettative verso il mercato italiano rimangono positive, sia per l’evoluzione generale dei mercati, sia per l’andamento previsto dei tassi di interesse. La prevista approvazione delle modifiche allo Startup act del 2012 e il nuovo piano industriale di Cdp dovrebbero contribuire a rendere il mercato del vc italiano ancora più competitivo”.

Verso quali direzioni?

“In termini di settori, c’è una transizione verso il deeptech rispetto al passato, con un aumento nei vari ambiti del trasferimento tecnologico: life science, energia, climate-tech e intelligenza artificiale”.

Guardando all’Europa, qual è stato finora il ruolo della Bei e del Fei nei confronti del suo ecosistema innovativo?

“Il gruppo Bei è composto dalla Banca europea per gli investimenti e dal suo ramo specializzato, il Fei, che ha una funzione di traino per l’innovazione in Europa. E non da oggi. La Bei ha come azionisti gli Stati membri e ha investito oltre mille miliardi di euro dalla sua fondazione nel 1958, con priorità a settori come la sostenibilità ambientale, l’innovazione stessa, le piccole e medie imprese, le infrastrutture e la coesione. Il Fei è stato istituito nel 1996 e da allora ha contribuito a mobilitare oltre 98 miliardi di euro di finanziamenti, sostenendo più di 415mila pmi e oltre due milioni di posti di lavoro”.

Quali differenze ci sono tra gli investimenti fatti dalle due istituzioni?

“La Bei sostiene direttamente le startup con investimenti di venture debt da minimo 7,5 milioni di euro, quindi si rivolge a imprese consolidate con importanti round già alle spalle. Il Fei invece non sostiene le startup in modo diretto, ma investe in fondi che a loro volta finanziano le imprese. Dal 2000 a oggi, il gruppo Bei nel suo complesso ha investito oltre 270 miliardi di euro. A oggi, il gruppo Bei è uno dei principali sostenitori pubblici dell’innovazione nel continente europeo e ha un ruolo cruciale nel supportare lo sviluppo di un ecosistema innovativo e competitivo”.

Qualche esempio concreto?

“Non molti sanno che il Fei ha finanziato indirettamente quasi la metà degli unicorni europei emersi negli ultimi 15 anni, perlopiù nelle prime fasi di sviluppo. Skype, Skyscanner, UiPath, WeTransfer, BlaBlaCar, Spotify, Shazam, Just Eat, Farfetch, Rovio e Zalando, solo per citarne alcuni”.

Non proprio nomi italiani. A proposito, parlava dei comparti innovativi in crescita oggi nel nostro Paese, che peso ha nel vostro fondo?

“L’Italia è da sempre uno dei maggiori beneficiari degli investimenti del Fei e continuerà a esserlo anche nel 2024”.

Di che cifre si parla?

“Il fondo ha investito 1,3 miliardi di euro in Italia nell’ultimo anno. Nel 2023, solo Romania, Germania e Francia hanno ricevuto più finanziamenti. Per quanto riguarda il breakdown, gli investimenti del 2023 sono suddivisi in 419 milioni in equity e 912 in garanzie, prodotti che beneficiano pmi e mid cap. Dei 419 milioni in equity, un record per il Fei in Italia e il 22% in più rispetto al 2022, 89 milioni sono stati destinati a quattro fondi di venture capital. Oggi, la dimensione totale di questi fondi è di 220 milioni, generando un effetto leva notevole: per ogni euro speso dal Fei, ne arrivano 2,5 alle startup”.

Qual è la strategia del Fei in Italia per i mesi a venire?

“Al centro della nostra attività nel settore dell’equity c’è la partnership con investitori di venture capital, sia istituzionali, sia privati. Manteniamo un contatto costante con investitori di rilievo con il Fondo nazionale innovazione e il Fondo italiano d’investimento. Questa collaborazione stretta ci consente di monitorare ed esaminare nuove opportunità, intervenendo dove necessario. La nostra priorità è garantire che le startup ricevano il supporto finanziario e strategico necessario per prosperare nel mercato competitivo”.

Non un’impresa semplice per un Paese tradizionalmente restio a puntare sull’innovazione.

“I dati europei dicono che il nostro Paese, pur essendo un leader mondiale nell’ottenere brevetti per tecnologie avanzate, rimane ancora al di sotto della media dell’Unione Europea per capacità di innovazione. Dobbiamo puntare sul trasferimento tecnologico, con particolare attenzione alle tecnologie strategiche europee come cleantech, deeptech, Ai, biotech e sicurezza informatica. Il Fei si sta muovendo in questa direzione: prevediamo almeno tre investimenti in fondi vc italiani, concentrati nei settori deeptech e cleantech”.

Insomma, ottime idee troppe volte non sfruttate.

“Siamo un Paese ricco di scoperte e innovazioni, ma spesso ci manca il passaggio cruciale: trasformare queste idee brillanti in imprese. Se guardiamo alla situazione finanziaria, ci rendiamo conto di avere un numero limitato di fondi specializzati. Solo 30 fondi investono nelle fasi iniziali dello sviluppo in Italia, mentre nel Regno Unito, in Germania e in Francia possiamo trovarne rispettivamente 280, 200 e 180. Il nostro obiettivo è contribuire ad aumentare il numero di fondi nel Paese per diffondere la cultura del venture capital e coinvolgere sempre più business angels e creare un ecosistema più efficace e inclusivo per gli emergenti”.

È soltanto una mancanza di soldi?

“Non solo, la distribuzione geografica del venture capital è ancora troppo sbilanciata per rendere il Paese competitivo. Il 27% delle startup si trovano nel Mezzogiorno, ma c’è solo un fondo, Vertis Sgr, che punta su di loro. Non ha senso avere un’autostrada della tecnologia che si ferma prima di arrivare al Sud. Dobbiamo lottare contro questo innovation divide che rischia di separare l’Europa, tra chi va avanti a tutta velocità e chi rimane indietro”.

Vede qualcosa cambiare o il bilancio è di sole ombre?

“Il segmento seed – early stage fino alle serie A sta iniziando a essere servito meglio, con diverse realtà, anche se di dimensioni limitate, e alcune specializzazioni. I divari più evidenti si trovano nelle fasi successive, quelle di crescita post-serie A e serie B, dove le imprese hanno bisogno di supporto per espandersi a livello internazionali con investimenti a partire dai 20 milioni di euro in su e coinvolgendo più investitori”.

Di male in peggio.

“Questo però è un problema che riguarda tutta Europa, seppure in proporzioni diverse. Degli oltre mille unicorni attivi nel mondo, solo due sono startup italiane: Satispay e Scalapay. È importante incentivare gli investitori istituzionali a partecipare di più, prendendo spunto da quanto avviene in alcuni Paesi dell’Ue. Ad esempio, in Francia il governo richiede ai fondi pensione e alle assicurazioni di investire una quota minima nei fondi vc nazionali, mentre in Italia queste categorie di investitori non sono abbastanza incentivati a farlo. Bisogna poi menzionare altre questioni urgenti da risolvere”.

Quali sarebbero?

“In primo luogo, una mancanza di exit importanti che potrebbero dare impulso a nuove iniziative, un ostacolo presente in Italia e anche nel resto d’Europa. Inoltre, il corporate venture capital è molto carente, mentre dovrebbe essere fondamentale per l’Italia, che è la seconda manifattura d’Europa, come mezzo per modernizzare l’industria tradizionale. Infine, c’è un grande divario nelle competenze. L’industria italiana del venture capital deve ancora sviluppare il know-how tecnologico necessario per individuare le operazioni con potenziale di crescita rapida”.

Che strumenti ha il Fei oggi per affrontare queste e le altre problematiche, in Italia e in Europa?

“Per attrarre nuovi investitori, il Fei ha sviluppato l’Asset Management Umbrella Fund, al cui interno sono stati lanciati fondi-di-fondi focalizzati sul venture capital, private equity e credito privato pensati per attrarre investitori istituzionali privati, in particolare fondi pensione e compagnie di assicurazioni, una categoria che fino al lancio di Amuf era esclusa dalle attività del Fei”.

Con quali risultati?

“A oggi sono stati raccolti 1,26 miliardi di euro da 30 investitori, di cui 27 europei. Oltre un miliardo è già stato speso in più di 70 fondi europei, che hanno a loro volta supportato oltre duemila startup e pmi. Prima, la maggior parte di questi investitori non aveva la capacità di effettuare investimenti di questo tipo, con Amuf ha acquisito le conoscenze tecniche e i contatti necessari per cominciare a investire anche in modo diretto”.

L’anno scorso avete anche lanciato la European tech champions initiative.

“Spesso, startup europee con prospettive brillanti di successo non riescono a raccogliere il capitale necessario per espandersi e consolidarsi sul mercato. Sono costrette a spostarsi all’estero, verso mercati dei capitali molto attivi e liquidi o a farsi comprare da competitor con una capacità di investimento maggiore. La Etci è stata lanciata proprio per colmare il gap nella fase di scaleup che esiste tra Europa e altri mercati, insieme a Italia, Spagna, Germania, Francia e Belgio, con lo scopo di supportare 10-15 grandi fondi vc europei con dimensione di circa un miliardo di euro. Una categoria finora pressoché assente in Europa. Questi fondi a loro volta investiranno ticket da oltre 50 milioni per supportare la fase di scaleup di startup europee che altrimenti sarebbero destinate a essere comprate da investitori non europei”.

A che punto siamo in questo piano?

“Finora sono stati fatti quattro investimenti per quasi un miliardo di euro, inclusi i 150 milioni investiti in Fsi II del Fondo strategico italiano, che a sua volta ha già investito quasi un miliardo in nove aziende europee. Nella prossima fase di Etci, si punterà ad attrarre, oltre agli stati membri, grandi investitori privati”.

Anche la mancanza di exit che ha citato poco fa necessiterebbe di soluzioni specifiche.

“L’anno scorso il Fei ha creato la Ipo initiative, con l’obiettivo di finanziare fondi di investimento europei specializzati nel supporto a startup e pmi che intendono quotarsi sui mercati pubblici europei. In questo momento, Fei ha completato due operazioni in questo contesto, uno nel fondo spagnolo Isetec e nel francese Revaia. Stiamo poi studiando nuovi programmi e iniziative per lanciare prodotti dedicati ad attrarre categorie di investitori finora mancate rispetto ai mercati extra-Ue, in particolare retail e corporate”.

Fonte : Repubblica