Cosa significa il bando cinese di WhatsApp, Telegram e Signal dall’App Store di Apple

Secondo il Wall Street Journal, da qualche giorno Apple avrebbe rimosso o starebbe per rimuovere dalla versione cinese dell’App Store una serie di programmi, fra i quali WhatsApp, Threads, Telegram e Signal sulla base delle preoccupazioni per la sicurezza nazionale manifestate da Pechino.

La richiesta è del tutto simmetrica rispetto alle decisioni assunte dagli USA nei confronti di TikTok sempre in nome della sicurezza nazionale, e forse, in termini strettamente tecnici, non è del tutto infondata. Tuttavia, non è difficile ipotizzare che la vicenda sia, in realtà, un tassello del complicato mosaico che raffigura la competizione commerciale fra le due superpotenze e che vede le relative Big Tech come punti sui quali esercitare pressioni economiche per raggiungere obiettivi politici. Difficilmente, infatti, Apple potrebbe considerare l’abbandono del mercato cinese “in nome dei diritti umani”, della “tutela della privacy” o della “libertà di espressione” e dunque non le rimane che rispettare le norme del diritto interno del Paese in cui opera pur di proteggere (giustamente) gli interessi degli azionisti. Detta in altri termini, non c’è da scandalizzarsi se un’azienda multinazionale adatta le proprie strategie commerciali in funzione delle normative locali.

A prescindere da queste considerazioni, che meriterebbero un approfondimento separato, rimane il punto che i sistemi di messaggistica rappresentano una preoccupazione costante per le strutture di intelligence e per quelle investigative di tutto il mondo, come dimostra —ma è un’altra storia— la guerra silenziosa scatenata contro criptosmartphone come Encrochat, SkyECC e le loro nuove iterazioni.

La Telegram Forensics è una disciplina ampiamente sviluppata fino (almeno) dal 2017, e quella su Whatsapp risale addirittura al 2014, mentre la stampa riporta da tempo notizie sulla possibilità che le agenzie di sicurezza americane stiano cercando di avere qualche forma di accesso all’una e all’altra. Per quanto riguarda Signal, invece, la fonte della preoccupazione è diametralmente opposta: la robustezza della sua architettura progettuale e la struttura non commerciale del modo in cui è diffusa, rendono questa app molto meno permeabile a pressioni dirette o indirette degli esecutivi. Infine, ed è un aspetto più specifico della realtà cinese, la disponibilità di applicazioni del genere (inclusa Threads) costituisce con buona probabilità un rischio non accettabile di indebolire la centralità di WeChat nella gestione e nel controllo delle interazioni sociali. È dunque perfettamente comprensibile (essere d’accordo o meno è un’altra questione) che un governo, qualsiasi governo, non sia disposto a rinunciare al controllo sul modo in cui vengono usati strumenti del genere.

A prescindere dalle questioni specifiche legate alle strategie di gestione della sicurezza nazionale in ciascuna delle due superpotenze ci sono, tuttavia, implicazioni più estese che dovrebbero far riflettere anche l’Europa sul ruolo di “gateway” —o, se vogliamo, di “gabelliere unico”— assunto da aziende come Apple o, in generale, da tutti quei servizi trasversali che concentrano nelle mani di un unico soggetto il diritto, e dunque, il potere, di decidere “chi” può accedere a “cosa”.

Quando, nel remoto 1991, Phil Zimmermann fece in modo che la prima versione di PGP venisse resa disponibile su risorse di rete non USA, la natura non centralizzata dell’accesso ai file rese praticamente impossibile alle autorità statunitensi bloccare la circolazione di un software crittografico che, all’epoca, era parificato ad un’arma da guerra. Oggi, la centralizzazione dell’accesso al software tramite piattaforme dedicate rende le cose molto più facili perché basta fare in modo che il distributore unico delle applicazioni non le renda disponibili per fare in modo che… non siano disponibili.

Certo, si potrebbe osservare che non tutto l’ecosistema (o meglio, il “disto-sistema”) del software funziona in questo modo, che per Android ci sono più piattaforme per scaricare le app e che persino Apple, almeno in Europa, è stata costretta a consentire la possibilità di creare centri distribuzione indipendenti dal tradizionale App Store.

Questa considerazione, però, non cambia la sostanza e, in particolare, non elide la constatazione che fino a quando un (quasi) monopolista controlla verticalmente l’intera filiera, dalla produzione del hardware alla commercializzazione dei software che lo fanno funzionare, questo (quasi) monopolista diventa la scorciatoia per imporre scelte politiche e commerciali.

È vero che la Commissione Europea ha recentemente aperto delle istruttorie sulle strategie di Alphabet, Amazon, Meta e Apple, ma è anche vero che, da un lato, queste riguardano delle “banali” strategie di vendita e, dall’altro lato, che la UE non tocca (industrialmente) palla nella partita degli strumenti di comunicazione e dei relativi software.

Dunque, mentre i regolatori si baloccano con l’imposizione di inutili regole sui caricabatterie o con il modo per  farsi pagare qualche sanzione per asserite violazioni di bizantini regolamenti, rimane largamente ignorato il tema geopolitico del controllo di fatto esercitato dai Signori della tecnologia sulle decisioni nazionali e unionali (prima si diceva “comunitarie”) in materia di sicurezza. Che Big Tech abbia un ruolo condizionante in questo ambito è evidente, tanto per fare un esempio, nell’annunciata volontà della UE di imporre il “client-side scanning”.

Il CSS è un sistema automatizzato di “perquisizione preventiva permanente individuale” degli strumenti di comunicazione per ricercare “contenuti illegali”, in base al quale ciascuno di noi diventa un sospettato di default anche se, come dicono i sostenitori della sicurezza a tutti i costi, non ha nulla da nascondere. L’industria tecnologica, con qualche eccezione, sta contestando questa ipotesi in nome della “tutela della privacy” (ma più probabilmente, ancora una volta, per tutelare i propri interessi commerciali) e rappresenta un interlocutore che, quando si siede al tavolo con i legislatori, lo fa in condizioni di parità o addirittura di superiorità molto più evidente delle “normali” trattative che riguardano altri comparti industriali.

Per capire la ragione di questo squilibrio al contrario, basta pensare a quello che potrebbe succedere se, improvvisamente, Big Tech decidesse di revocare globalmente le licenze per l’utilizzo di uno dei propri software di webcall, gestione di posta elettronica o memorizzazione e scambio di file. Sarebbe la paralisi.

Fantaeconomia? Non tanto, come insegna, da ultimo, il caso VMWare-Broadcom nel quale il recente cambio delle strategie commerciali per l’utilizzo della diffusissima piattaforma di virtualizzazione che “taglia fuori” gli utenti “menopaganti” sta creando un terremoto silenzioso, ma sempre un terremoto, nella gestione delle infrastrutture di istituzioni e di aziende che per anni si erano affidate a un modello commerciale che, sul lungo periodo, non si è dimostrato così stabile come sembrava.

Il seguito, alla prossima puntata…

Fonte : Repubblica