“Se non fai i macaron non sei nessuno”, si potrebbe riassumere girando per le pasticcerie ritenute di alto livello. E allora i baci di dama? I cannoncini alla crema? E le mitiche tartellette alla frutta; che hanno fatto di male? Certamente, occorre distinguere. Il repertorio di cui sopra — protagonista del cabaret delle paste delle domeniche ‘di una volta’ — si trova ancora nei locali classici. Quelli che non si lanciano nella sperimentazione a tutti i costi, ma che, anche per questo, conservano un listino prezzi mediamente popolare e perseguono poco o nulla strategie di marketing. Perché chi pagherebbe mai un cannoncino quanto un variopinto macaron? Se le pastarelle del repertorio italiano soccombono all’ondata internazionale di éclair, cinnamon roll e croquembouche c’è più di un motivo.
I dolci internazionali che ci piacciono di più
Prima della moda dei croissant di qualsiasi forma, a imperversare come trend ‘esotico’ furono i cupcakes. Dolcetti che non hanno mai avuto granché da dire, ma che furono al centro, nei primi Duemila, di una specie di febbre post Sex&The City, capace di persuadere che far merenda con un’anonima tortina infarcita di crema al burro fosse un’idea cool. La grande pasticceria francese è sempre rimasta sullo sfondo, ma è solo da qualche anno che i nostri artigiani hanno preso a puntare forte sui già citati macaron, longilinee éclair invece di più modesti bigné ‘belli carichi’, poi Mont Blanc, Paris-Brest, Tarte Citron e pure Kouign-amann e Cannelé. È partita una ventina d’anni fa, invece, la rimonta della gastronomia del Nord Europa. Prima con la New Nordic Cuisine e a traino pure con la generazione di bakeries dall’umore un po’ standard, che hanno sdoganato il repertorio di cinnamon rolls e hot cross buns. Mentre prosegue l’importazione periodica di nuovi ibridi — spesso dagli USA: tipo il Cronut —, la nuova frontiera è l’Estremo Oriente. Dal Giappone si cominciano ad esempio ad apprezzare shokupan declinato al dessert, fluffy pancake e taiyaki a forma di pesciolino. Specialità da latitudini diverse, con un punto in comune: siamo disposti a pagarle sempre un po’ di più.
Ma cos’è, in fondo, la pasticceria italiana?
Attenzione, però, a gridare all’esterofilia senza pensare un pochino alla storia. Mentre è vero che le torte moderne a base di bavaresi e mousse montate sono contributo della scuola francese e svizzera, le ricette nate su suolo italiano poi sviluppate ed evolute nel mondo restano significative. Dal gelato — la prima ‘macchina’ sarebbe una trovata dell’architetto Buontalenti nella Firenze del Cinquecento — al Pan di Spagna, nato nella penisola iberica dall’estro di un pasticciere genovese. C’è poi la grande tradizione in fatto di frolle e crostate, spiccatamente nazionale, quella antichissima dei canditi e dei confetti, fiorita con la disponibilità di zucchero giunta con gli Arabi. Tutto questo senza addentrarci nel repertorio di biscotteria, dolci da credenza e ricette legate a festività e ricorrenze religiose. Le conosciamo bene, continuiamo a farcele a casa — per quel legame stretto tra cibo e ritualità che qui vale più che altrove — e forse, in pasticceria, preferiamo lasciarci stupire da altro.
Se la pasticceria italiana è meno ‘cool’ è anche un problema di marketing
Tra serie tv, cinema e trend social, i dolci diventano dunque oggetto del desiderio più facilmente di altro. Per questo ci si costruiscono intorno strategie di marketing, che a volte li adottano come ‘prodotti civetta’ per trainare il resto del bancone. “La pasticceria, un po’ per mancanza di idee, un po’ per questa tendenza molto italiana nel guardare e copiare sempre quello che si fa all’estero non prestando tradizione a ciò che la nostra grandissima tradizione ci offre, si prodiga in esercizi di stile”, ha commentato il lievitista Andrea Tortora nella nostra intervista a proposito del non-sense dei croissant cubici. Il quale, non a caso, sta investendo molto nel rilancio di una ricetta antica: la torta delle rose. Unire le forze tra colleghi e far capire che i dolci nazionali possono essere altrettanto ‘fighi’, è il suo auspicio. Un po’ quello che sta succedendo col panettone — nato industriale, ma alla conquista dei mercati stranieri nella sua versione artigianale — e anche, poco a poco, col maritozzo, che oggi imperversa tra Giappone e Corea.
Far tornare i conti con la pasticceria tradizionale italiana
Se lo scatto dei dolci italiani in termini di posizionamento è più semplice a dirsi che a farsi, il problema sta anche sul piano imprenditoriale.“A quanto mai puoi vendere un cannoncino alla crema?”, si domanda Mattia Premoli de La Primula di Treviglio (qui il racconto della sua evoluzione, da autodidatta), “una monoporzione sedano e pepe di Sichuan magari a Milano la metti a 7€ al pezzo, che sarebbero 85€ al kg. I dolci tradizionali, qui, non possono superare i 30€”. Le differenze in termini di costo delle materie prime e complessità della lavorazione hanno sì il loro peso, ma a influire sulle scelte di consumo, e quindi sull’adeguarsi delle pasticcerie ai trend internazionali, è soprattutto una questione di percepito. La rincorsa di quel che per un breve momento è novità, per trasformarsi poco dopo in ripetizione e appiattimento.
Leggi il contenuto originale su CiboToday
Fonte : Today