“Ora e sempre RESISTENZA”. Così il partigiano e politico Piero Calamandrei conclude la sua epigrafe ad Albert Kesselring, comandante delle forze di occupazione naziste in Italia tra il 1943 e il 1945, che chiedeva agli italiani di ringraziarlo e dedicargli un monumento per aver protetto alcune città d’arte mentre si trovava in Italia. Durante due anni di occupazione i nazisti uccisero circa 46mila civili. Per Kesselring le opere d’arte valevano più della vita delle persone. Fu condannato a morte per crimini di guerra, come responsabile della strage di civili delle Fosse Ardeatine a Roma. La sua pena fu cambiata in ergastolo, ma dopo appena 10 anni, nel 1952, fu liberato per via delle sue condizioni di salute. A quel punto, da uomo libero, chiese all’Italia di dedicargli un monumento e Calamandrei lo accontentò con quella che assieme è una condanna e una promessa.
Kesselring fu arrestato il 6 maggio del 1945 e processato nel 1947 a Mestre. I capi di imputazione riguardavano proprio l’uccisione dei 335 cittadini italiani fucilati alle Fosse Ardeatine e l’emissione del cosiddetto “Bando Kesselring” con cui autorizzò i soldati ad applicare azioni di rappresaglia su cittadini innocenti, dopo l’azione partigiana di via Rasella, a Roma. Kesselring fu ritenuto colpevole di crimini di guerra e, il 6 maggio del 1947, la Corte militare britannica lo condannò a morte. Salvato dalla condanna per intervento dell’allora primo ministro del Regno Unito, Wiston Churchill, morì in libertà senza mai essersi pentito per le sue azioni. Al contrario, continuò a sostenere di essere stato il salvatore delle città d’arte italiane.
La storia:
- L’azione partigiana di via Rasella
- La repressione
- L’epigrafe di Piero Calamandrei per il “camerata Kesselring”
L’azione partigiana di via Rasella
Il 23 marzo 1944, 12 partigiani appena ventenni, riuniti in un Gruppo di azione patriottica (Gap) sotto il comando del Partito comunista italiano, attaccarono un battaglione di 150 soldati nazisti che transitava per via Rasella, con 12 chili di tritolo. Per piazzare la bomba uno dei partigiani si travestì da spazzino, caricando l’esplosivo nel bidone della bicicletta e accendendo la miccia con le braci della sua pipa, per poi scappare a piedi. Si trattava del Polizeiregiment Bozen, reggimento di polizia militare subordinato al comando delle SS in Italia. Il più giovane di loro aveva 23 anni, il più vecchio 43 ed erano impegnati nei rastrellamenti a Roma e contro i partigiani nei Castelli Romani.
Marciavano con il mitra in mano, il colpo in canna e le bombe a mano innescate nelle cinture. Con l’esplosione morirono sul colpo 26 soldati, ma la colonna era composta da 150 uomini, che presero a sparare a casaccio, uccidendo 6 civili e un poliziotto fascista. Altri 7 soldati tedeschi morirono per le ferite riportate. Il giorno successivo all’attacco, i tedeschi smettono di far passare i convogli di rifornimenti attraverso Roma e cominciano ad evacuare la città. Smettono anche i bombardamenti degli Alleati, per ben due mesi. Tra il 4 e il 5 giugno 1944 le truppe Alleate liberano Roma.
La repressione
L’attacco di via Rasella, arrivato dopo mesi in cui i partigiani colpivano nazisti e fascisti quasi giornalmente, colpì profondamente il comando nazista. Roma era vitale per inchiodare gli Alleati ad Anzio e nel Sud Italia, per far riposare le truppe impegnate al fronte e per far passare i rifornimenti, ma le continue e sempre più efficaci azioni partigiane resero la città invivibile per i nazisti. Secondo le testimonianze date da Kesselring, dal comandante delle SS in Italia Eugen Dollmann e dal comandante della Gestapo Herbert Kappler, Hitler avrebbe voluto uccidere 50 italiani per ogni tedesco morto e loro lo avrebbero convinto a scendere fino a 10 italiani, per un totale di 330 persone.
Fonte : Wired