C’è chi nei fondi delle tazzine del caffè prova a leggere il futuro e chi invece, indagando attentamente, ha trovato ben altro. Ad esempio bambini di otto anni che in Guatemala lavorano nelle piantagioni per quasi 40 ore a settimana in condizioni estenuanti per raccogliere i preziosi chicchi marroni di Arabica o Robusta. Il salario quotidiano equivale a pochi centesimi, il minimo necessario per comprare una tazza di latte. Osservando attentamente tra i fili delle t-shirt che indossiamo potremmo trovare invece i volti di medici e insegnanti del Turkmenistan che per cifre irrisorie sono costretti a raccogliere da 20 a 30 chilogrammi di cotone al giorno.
Possiamo chiamarlo lavoro forzato o con meno peli sulla lingua “schiavitù contemporanea”. Il fenomeno è diffusissimo in tutto il mondo e vede costrette a condizioni disumane e degradanti oltre 27 milioni di persone, di cui oltre tre milioni di minori. Il parlamento europeo ha appena votato una legge per impedire che nel mercato europeo vengano venduti prodotti frutto di queste costrizioni, ma applicarla con risultati efficaci potrebbe risultare più difficile del previsto.
Bambini al lavoro 9 ore al giorno
Per il caffè, oltre che in Guatemala, gli indizi sullo sfruttamento sono stati rinvenuti anche in Honduras, Guinea, Brasile, come pure in Kenya e in Messico. Rispetto ad altre colture come il riso o la canna da zucchero, il caffè richiede molta più manodopera e ad occuparsi del raccolto in America latina sono i Jornaleros, persone che migrano per settimane o mesi per ottenere dal caffè una paga giornaliera irrisoria. Nel caso del Guatemala a migrare sono soprattutto famiglie di contadini indigeni, che portano con sé i figli, anche neonati, nelle piantagioni. I raccoglitori, come racconta Slow Food in un report, vengono sistemati nelle Galeras, alloggi precari spesso privi di elettricità e gas e dalle condizioni igienico sanitarie pessime. In settimana, solo mezza giornata è “libera” e nelle piantagioni si rimane non meno di 9 ore al giorno. In breve: si lavora e si dorme. Le condizioni che valgono per gli adulti sono identiche per i bambini. Niente scuola, né giochi. Solo fatica al retrogusto amaro del caffè, lo stesso che finisce nelle nostre tazzine.
Schiavitù globale
Non si tratta però di additare un singolo prodotto o Paese. Secondo i dati dell’agenzia Onu sul avoro (Oil), il fenomeno del lavoro forzato riguarda circa 27,6 milioni di persone nel mondo, di cui 3,3 milioni di minori. Oltre la metà si trova nella regione Asia-Pacifico. Scorrendo la lista redatta nel 2022 dal Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti troviamo ben 159 merci diverse provenienti da 78 Paesi e aree. Compare il cacao della Nigeria, il sesamo del Paraguay, il riso delle Filippine, il manzo e il mais del Brasile. L’agricoltura è il settore che presenta le maggiori criticità in tutti i continenti, ma non mancano altri esempi, come l’argento dalla Bolivia, i mattoni dall’Egitto, il cotone dalla Cina, dal Pakistan e dal Turkmenistan. Figurano anche pannelli solari e componenti elettroniche, senza dimenticare i giocattoli. Provenienti dalla Repubblica popolare cinese, ancora troppo spesso sono montati dalle mani di bambini, che anziché giocarci li assemblano toccando pericolosi prodotti chimici.
Nuove catene
Non sono necessarie le catene per poter parlare di lavoro forzato. Secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro sono sufficienti minacce, abusi sessuali, condizioni di lavoro insostenibili, e quando si approfitta della vulnerabilità delle persone, ledendo la loro dignità. “Gran parte del lavoro forzato avviene in Paesi considerati ‘poveri’, ma è diffuso anche in Stati con regimi autoritari come la Cina. I settori dove il rischio di lavoro forzato è molto alto riguardano i prodotti di largo consumo come quelli tecnologici e quelli agricoli. Tutti beni che finiscono facilmente nel mercato dell’Unione europea”, ha spiegato a Today.it Anna Cavazzini, eurodeputata tedesca dei Verdi. La parlamentare ha contribuito alla stesura del regolamento che prevede il divieto di commercializzare prodotti realizzati con lavoro forzato nel mercato dell’Unione europea, così come la loro esportazione verso Paesi terzi. Il regolamento è stato adottato dal Parlamento Ue il 23 aprile con 555 voti favorevoli, 6 voti contrari e 45 astensioni. Una maggioranza molto ampia, frutto anche di una serie di compromessi. L’intento è sì nobile, ma il regolamento presenta alcune lacune e anelli deboli.
La portata è stata ridotta innanzitutto dal certosino lavoro di alcuni governi dell’Ue, come la Francia e la Germania, terrorizzati all’idea di caricare di troppi oneri le proprie aziende o di minare i rapporti con un pilastro economico come la Cina.
Compromesso cinese
Pechino ha storto il naso non appena Bruxelles ha presentato una bozza di questa legge, temendo ripercussioni dirette sulle esportazioni di prodotti provenienti dallo Xinjang, al centro di numerose indagini internazionali. In questa regione della Repubblica popolare, secondo attivisti dei diritti umani lavorerebbero in condizioni di schiavitù circa un milione di persone, in particolare della minoranza degli Uiguri, insieme a membri di altre minoranze come quella kazaka. Il cotone raccolto è destinato ai grandi marchi dell’abbigliamento, sostengono vari report. Mentre Washington ha adottato una legge specifica per vietare importazioni da quest’area, i governi dell’Unione europea hanno voluto evitare che norme apposite irritassero Pechino. Un divieto preciso per la Repubblica popolare cinese potrebbe inoltre andare a sbattere contro le leggi anti-discriminazione dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Shein e Temu: cosa paghiamo per avere tutto (quasi) gratis
La proposta di legge attribuisce alle autorità nazionali (individuate da ciascuno Stato) o alla Commissione, se i prodotti provengono da Paesi terzi, il compito di indagare su sospetti casi di lavoro forzato nelle catene di approvvigionamento. Nel caso in cui venissero confermati i sospetti, “i prodotti incriminati saranno prontamente ritirati” sia dal mercato fisico che dalla vendita online, come pure alle dogane. Per le aziende responsabili sono invece previste delle multe. Il meccanismo non è di facile attuazione. Al contrario di quanto chiesto dagli eurodeputati, i governi a marzo di quest’anno hanno ottenuto che l’onere della prova, anziché sulle aziende, ricada sulle autorità nazionali o sulle organizzazioni della società civile che denunciano. Dovranno essere queste ultime a dimostrare che un prodotto è frutto di schiavitù o lavoro minorile.
Il sito dove trovare prodotti vietati e a rischio
Bruxelles si è impegnata anche a creare un “Portale unico sul lavoro forzato”, dove i cittadini potranno trovare informazioni aggiornate sui prodotti vietati, come pure sui settori semplicemente a rischio. La banca dati sarà un punto di riferimento per le aziende europee che vogliano agire in modo etico e responsabile, al fine di evitare fornitori sospettati di sfruttare lavoratori e bambini. Agire sulla filiera costa però più che ripulirsi l’immagine. Tra le fonti di informazione le autorità competenti potranno utilizzare anche le denunce provenienti da giornalisti e Organizzazioni non governative. Se indagare sulla filiera che dalle materie prime approda nei negozi fisici e online europei è un processo estremamente costoso e richiede tantissime risorse ed energie, è stata creata una piccola scappatoia di salvataggio: se dovessero mancare tutte le prove necessarie, ad esempio a causa della mancanza di collaborazione da parte di una società o dell’autorità di uno Stato terzo, l’Ue potrà adottare il divieto anche solo sulla base dei dati già disponibili.
Vittime senza risarcimenti
Il nodo principale riguarda le catene produttive, sempre più complesse da ricostruire. Molte aziende del Sud-est asiatico, come quelle in Thailandia, Cambogia o Vietnam, che esportano beni per miliardi di euro verso l’Unione europea (soprattutto abbigliamento e calzature), si riforniscono di materie prime provenienti principalmente dalla Cina, dove realizzare controlli è pressoché impossibile. Nonostante le pressioni esercitate, il risarcimento per le vittime come elemento obbligatorio è rimasto una chimera. “Per noi è importante che la legislazione non si limiti a bloccare l’importazione di beni, ma che incentivi anche un sistema di compensazione delle vittime. La nostra richiesta di includere la riparazione come condizione per revocare il divieto non è stata però accettata dal Consiglio durante gli ultimi negoziati”, ha spiegato a Today.it Saskia Bricmont, eurodeputata dei Verdi impegnata anche lei su questo dossier. Alla fine è stata inclusa solo una definizione della “riparazione”, la stessa presente anche nella direttiva sulla due diligence (la responsabilità delle imprese), l’altra legge che richiama le aziende alle proprie responsabilità rispetto alle merci che producono e importano. Le due norme viaggiano in parallelo insieme alla legge sulla deforestazione. La vera impresa sarà rendere operativo questo “pacchetto” e impedire che siano solo un bel ventaglio di diritti umani da schiudere per rimirarsi allo specchio, illudendosi di stare sempre dalla parte dei “buoni”.
Fonte : Today