Per imporsi, una popstar ha due strade – o almeno, la storia finora dice che ne ha due, poi chissà. La prima è essere un alieno, una divinità. Trascendere, insomma, l’umano. Funziona, eh. Basti pensare a Madonna (già dal nome), o alla stessa Raffaella Carrà in Italia; ma anche, per andare sul maschile, a Michael Jackson, al moonwalk, cioè un gesto che a noi semplicemente non riesce. Il risultato, se va bene, è l’ammirazione sconfinata: l’industria ci ha costruito un impero, sui divi e le dive, popstar perfette e irraggiungibili.
La seconda via non prescinde da tutto ciò, anzi lo tiene dentro, ma alimenta una contraddizione fondamentale: la popstar resta tale e virtualmente perfetta, sì, ma di fianco mette in mostra anche i suoi lati umani, troppo umani. Il contrasto li esalta, e il pubblico, più che venerare, si affeziona ai difetti, ci si rivede. Ecco, il nuovo disco di Taylor Swift, The tortured poets department, suo più atteso di sempre, rappresenta questa formula, nonché il segreto con cui l’ex cantautrice country statunitense a 34 anni è la popstar più amata della sua generazione, oltre che il personaggio chiave di quest’epoca di streaming e di musica liquida.
Non solo canzoni
A chi finora non avesse chiaro cos’abbia di speciale, The tortured poets department dice che no, non sono le canzoni. O meglio: non solo. Certo, ci sono una produzione fenomenale e delle idee chiare, linee melodiche killer e un’idea di pop contemporanea da fare scuola, che oltre dai soliti lustrini pesca dalla nostalgia sempreverde per il downtempo anni ottanta (l’apertura Fortnight, con Post Malone, quasi sorella del dream pop della stessa title-track) e dai novanta, e da atmosfere seducenti che non aggrediscono ma ipnotizzano, dall’indie-folk e dal pop alternativo – non a caso, più di tanti nomi da miliardi di ascolti, tra gli ospiti ci sono i Florence and the Machine. E però: non è un disco che cambia le regole del gioco, come non lo è nessuno dei suoi, e non è neanche un lavoro che si porta dietro così chissà quale respiro del suo tempo; c’è di meglio da questi punti di vista, le belle canzoni si trovano anche altrove. Non è mica con ballatone liceali come But dad I love him che si arriva quassù, né imitando – perché poi di quello si parla – Lana del Rey negli episodi più riusciti.
E allora? E allora qualcos’altro, quel contorno che per altri sarebbe solo, appunto, contorno e per lei invece è il nucleo. Non, di nuovo, le strategie promozionali – ok, annunciare un disco e poi scoprire, al momento dell’uscita, che è un doppio è una bella trovata, rende tutti partecipi di un’epifania, di un colossal collettivo, pure perché 31 tracce tutte insieme oggi non si vedono più – ma delle canzoni che diventano un veicolo per la capacità di Swift di inventarsi dei mondi, narrazioni, un ecosistema di sentimenti. È la differenza che passa tra Star Wars e un qualsiasi grande romanzo di fantascienza: Star Wars è una realtà vive, pulsante, che trascina dentro; il resto, belle opere da vedere per un paio d’ore. Con Swift non si ascolta solo una popstar: si assiste alla rappresentazione della sua vita, a lei che rompe la quarta parete, a una storia individuale che lei trasforma in collettiva. Una storia, ecco, di per sé straordinaria, ma che lei riempie di fatti e fattarelli ordinari, normalissimi.
Perché Taylor Swift è davvero la persona dell’anno
Così lontana, così vicina
Perché Swift, soprattutto, sa costruire le sue storie, nel senso che qualsiasi cosa accada la trasforma in una canzone, che poi di solito è una canzone d’amore. The tortured poets department non fa finta che la vita da diva non esista, ma più che le pressioni o la quotidianità di una star annoiata racconta i guai d’amore comuni, che potrebbe vivere qualsiasi donna, e forse vive anche lei. Lei crocerossina, lei sempre dall’uomo sbagliato, pessimo, manipolatore, narciso. Non importa che la realtà non sia per forza così, né che questa sia la sua realtà o meno: conta che costruire un filo con il pubblico, trasmettere dei valori, dei sentimenti, delle storie che vanno oltre le canzoni in sé. Il pop ha bisogno anche di questo: difetti, umanità, sincerità, vera o falsa che sia; purché sia credibile.
E questa lo è, grazie poi al come Swift racconta le storie in questione, in bilico tra domande private che nessuno le ha fatto e risposte che tutti, invece, evidentemente vorrebbero sentire. In questo, è ancora molto cantautrice: sembra di farsi una chiacchierata con un’amica, sembra abbia quasi un rapporto di sorellanza con le fan, con cui si confida e si sfoga come farebbe con un diario segreto, passando spesso per l’illusa (I can fix him (no really I can) è quasi un melodramma, ma anche la stessa But daddy I love him), ma senza risultare patetica. Tutto risulta descritto benissimo, per toni e dettagli. E da qui – ma non è una novità – si dipanano varie tracce, da quelle che la trasformano in un modello dell’empowerment femminile – alla fine l’album è un’altra tappa della battaglia campale tra lei e come la vorrebbe lo showbiz, sempre stando al suo racconto, certo – fino alle milioni di persone che l’adorano non per i ritornelli, ma perché in parte si ritrovano nei suoi problemi d’amore, negli argomenti da eterna adolescente, nella sua paradossale umanità. È il grande inganno del pop? Non importa, di nuovo. Forse, semmai, è solo un gioco, un gioco vero, di prospettive: Swift, così lontana e così vicina.
Fonte : Today