La vicenda della censura subita dallo scrittore Antonio Scurati per un monologo commissionatogli e poi “revocato” dalla Rai in vista del 25 Aprile è esplicativa di molte cose, tutte poco gradevoli. Tra queste non c’è, fortunatamente, il pericolo immediato di un regime autoritario, l’ipotesi di una manovra di controllo capillare e scientifica che punti a spegnere del tutto il dissenso e la circolazione, sui media, di scontate professioni di antifascismo, o di legittime obiezioni sulla geneaologia politica di Giorgia Meloni. Se anche ci fosse, si scontrerebbe con una realtà che nel mondo di oggi, per definizione, non consente di censurare davvero: e revocare il diritto di parola in Rai a un noto scrittore porta con sè, automaticamente e fortunatamente, una reazione che a quelle parole sta dano una eco sicuramente comparabile a quella che avrebbe avuta sulla tv di Stato, e una permanenza nel dibattito sicuramente superiore. Non averlo immaginato quando si è deciso, imbastendo scuse penoso, di negargli un diritto di tribuna che era già predisposto, non è indicatore di fascismo, ma di grave ignoranza del tempo che viviamo e, in definitiva, di stupidità. Che non è sinonimo di fascismo anche se sicuramente è un buon ingrediente e brodo di coltura per lo sviluppo dell’idea e della pratica fascista.
Rispetto ad altri compensi Rai 1.800 euro non sono niente
Tra le varie cose sgradevoli della vicenda, potremmo sicuramente contare le sgraziate parole della presidente del Consiglio Meloni, che lavandosi le mani della vicenda ha sottolineato che Scurati avrebbe dovuto prendere 1.800 euro per un breve monologo: “lo stipendio mensile di molti dipendenti”. Forse a Giorgia Meloni sfugge che in Rai, per le apparizioni di personaggi noti, si pagano regolarmente cachet pari a stipendi di molti dipendenti, e non di uno solo. Quel che non le sfugge, sicuramente, sono invece le regole della comunicazione populista: dare in pasto al suo popolo il “ricco” scrittore “radical chic”. Parole e toni che, invero, non mostrano alcun dispiacere per quanto accaduto, né alcun sentimento politico positivo rispetto al valore della libertà d’espressione maldestramente calpestata. Non è una firma dell’atto di censura, ma nemmeno una dissociazione.
Tra bugie e sforzi fantozziani
E tuttavia, la prevedibile ritorsione polemica della premier, non è la cosa peggiore di quelle che abbiamo visto all’opera. All’origine della censura operata dalla Rai ai danni di Scurati, infatti, non c’è, ragionevolmente e fino a prova contraria, un’esplicita volontà politica che chiede che qualunque critica sia vagliata prima ed evitata dopo ma, piuttosto, un radicatissimo costume italiano, che nella tv pubblica trova il suo luogo principe, e in questi anni conosce il proprio apice: il servilismo del burocrate. Che, appena legge le parole di Scurati, temendo a torto o a ragione che la testa che rotolerà sarà la sua, la poltrona che sarà sfilata sarà quella sulla quale si siede lui, cerca una faticosa via per evitare che quello scrittore vada in onda, e per essere certo che lui e il suo monologo restino fuori dalla porta di casa Rai. Da questo sforzo goffo e fantozziano – senza nulla togliere alla grandezza del Ragioniere e delle sue sporadiche quanto memorabili ribellioni – nasce la catena di casini e bugie che hanno circondato il nostro caso, e che riguardano chissà quanto spesso, quante volte, vicende minori. Quanti ospiti diventano sgraditi, quante rogne vengono evitate preventivamente, e con esse occasioni di ragionamento, confronto, informazione. È questa una tendenza non certo iniziata oggi, ed è bene ricordarselo, ma che affonda le radici nella natura stessa della lottizzazione politica della Rai. E tuttavia, negli ultimi anni conosce senz’altro un’accelerazione, complici forse la disabitudine di una classe politica a maneggiare certi dossier, e la famelicità che caratterizza da sempre chi è stato a lungo “dalla parte del torto”, e quindi non sa mai quanto durerà il proprio avere ragione.
Il ritorno di Mario Draghi
E dire che, mentre ancora una volta ci troviamo a parlare della tv pubblica e della sua gestione proprietaria, tutto attorno avremmo molte ragioni di preoccupazione, e cose importanti da guardare in prospettiva. Questa settimana ha segnato il ritorno in campo di Mario Draghi. Dopo una sua conferenza nella quale ha prospettato la necessità di cambiamenti radicali per l’Europa politica. Le sue parole, le parole del più “autorevole italiano del mondo” hanno ovviamente scatenato una ridda di ipotesi su un suo futuro a capo della commissione europea che uscirà dagli equilibri parlamentari di Strasburgo, che a loro volta saranno ridisegnati dal voto europeo del 9 giugno. Proprio quel voto, avvicinandosi, chiarisce schieramenti e candidature. A parte Matteo Salvini, che questa volta non ha voglia di intestarsi una sconfitta mentre cinque anni fa non ebbe dubbi sull’opportunità di intestarsi una vittoria, i leader di partito saranno tutti e tutte in campo: Meloni, Schlein, Tajani. Nessuno di loro, se eletto, si trasferirà in Europa, e tutti continueranno a fare il loro lavoro Roma. Il che fa dire, comprensibilmente, a Romano Prodi, che è tutto sbagliato, che la credibilità della politica passa anche dal fatto che ci si candidi per il parlamento più importante d’Europa se si vuole e si può andarci davvero. Giustissimo. Ma del resto, fa meglio alla politica l’ipotesi che la prossima Commissione europea sia guidata da un uomo, proprio l’italiano più autorevole del mondo, che mai si è confrontato a nessun livello, in nessuna sede, col voto popolare?
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Fonte : Today