“Le parole fanno più male delle botte. Ciò che è accaduto a me non deve più succedere a nessuno”: è questo il testamento che la 14enne Carolina Picchio ha lasciato a suo padre e non solo. Era il 2013 quando la ragazza decise di togliersi la vita: “Carolina è una ragazza intelligente, altruista, sportiva e sognatrice, ma quella notte la fragilità di adolescente prende il sopravvento si toglie la vita – racconta suo padre Paolo Picchio, ormai noto come papà Picchio, sul sito della fondazione a lei dedicata -. Troppo grande l’umiliazione di vedersi in un video mentre, priva di coscienza, dei suoi coetanei giocavano con il suo corpo mimando atti sessuali. L’odio è tutt’altro che virtuale, come il dolore e la sofferenza. Troppo pesante leggere tutti quegli insulti postati sui social che rilanciano quelle stesse immagini terribili. Eppure al centro delle offese, migliaia di commenti da gente che neanche conosceva, c’era lei. Proprio lei, che neppure ricordava quel che fosse accaduto durante quella festa di un paio di mesi prima”.
Dopo un periodo di enorme dolore Papà Picchio decide di fare della richiesta della figlia il suo mantra e fonda, con il pedagogista Ivano Zoppi, la fondazione che da più di 10 anni si occupa di creare attenzione e sensibilità su questi temi. Oggi a Carolina è dedicata la prima legge in Europa sul cyberbullismo, approvata all’unanimità il 17 maggio 2017.
“La nostra azione si articola su tre pilastri fondamentali: prevenzione, ricerca e supporto. La prevenzione coinvolge attività di sensibilizzazione e formazione rivolte ai giovani, agli operatori scolastici e ai genitori, al fine di promuovere comportamenti consapevoli e responsabili nell’uso della tecnologia. La ricerca è volta a studiare e monitorare i nuovi fenomeni digitali, per mantenere sempre aggiornata la nostra comprensione del contesto digitale in continua evoluzione. Infine, il supporto offre un’assistenza gratuita diretta ai giovani in difficoltà, attraverso un team interdisciplinare di esperti pronti a intervenire in caso di emergenza o devianze online”, spiega Zoppi.
Come arrivate alle persone, ai ragazzi?
Prevalentemente attraverso le scuole. Ogni anno incontriamo circa 90.000 ragazzi e purtroppo se arriviamo a 15.000 genitori facciamo festa. Manca la presa di coscienza del ruolo educativo dei genitori su questo tema. Basta pensare che il regalo più gettonato per la prima comunione è lo smartphone: serve una riflessione. Così, per raggiungere più famiglie possibile abbiamo fatto una partnership con le principali associazioni di pediatri per far fare loro un bilancio sul tema della digitale: le famiglie possono non venire ai nostri incontri nelle scuole ma dal padiatra ci devono andare per forza.
In che ordine di scuole agite?
Prima dalle medie, ora anche le elementari e iniziamo a coinvolgere le famiglie anche dall’infanzia. Abbiamo diversi progetti e quando incontriamo bambini e ragazzi cerchiamo sempre di coinvolgerli con un’attività di scambio. Non lezioni frontali ma dialogo, gioco. Spesso, per esempio usiamo i Lego, in partnership con Lego Foundation. E di solito alla fine di ogni incontro ce ne andiamo con una domanda: avete mai pensato come vi sentireste se accadesse a voi? E’ fondamentale mettersi nei panni degli altri per capire.
Come funziona il vostro rescue team? Chiunque può contattarlo?
l progetto Re.Te. – Rescue Team è il nostro “team di salvataggio” dedicato a fornire supporto immediato ai giovani in situazioni di emergenza legate al cyberbullismo o ad altre forme di devianza online. Il team è composto da esperti in vari settori, come pedagogisti, psicologi, pronti a intervenire con un approccio multidisciplinare per affrontare le sfide più complesse. Collaboriamo strettamente con le scuole, le forze dell’ordine e il sistema sanitario per garantire una risposta tempestiva e adeguata a ogni situazione. È gratuito e rivolto a tutti: scuole, famiglie, ragazzi. Il team attesta oltre 250 interventi continuativi a supporto di studenti e famiglie su tutto il territorio nazionale.
I ragazzi parlano di questi argomenti?
Ne hanno molto bisogno, se c’è chi li ascolta parlano. La distanza culturale tra genitori e figli ha accentuato i problemi, creando una fragilità nei ragazzi legata anche ai contenuti veicolati attraverso i dispositivi digitali. Le famiglie non comprendono che non c’è distinzione tra la vita reale e quella virtuale. Tutto ciò che accade online ha un impatto diretto sulla vita reale dei giovani, influenzando il loro benessere e le loro relazioni.
Ai genitori quindi come vi rivolgete?
Nella nostra attività, cerchiamo di comunicare il significato profondo delle parole e l’importanza delle regole. Le giovani generazioni non riescono più a connettersi con le proprie emozioni, che spesso confondono con istinti e pulsioni, alimentando confusione, solitudine e malessere. Sono questi i presupposti di comportamenti aggressivi, violenti e omertosi che proiettano sul pianeta istruzione ansie e paranoie. Lo conferma l’indagine realizzata su un campione di 600 ragazzi che abbiamo fatto con la nostra cooperativa Pepita onlus. Oltre il 60% dei ragazzi (11-17 anni) rimpiange il periodo del lockdown. Un dato scioccante, tanto più considerando che circa il 75% dei giovani interpellati rivela di sentirsi spesso in ansia. Il 55% del campione, infatti, denuncia la mancanza di adulti in grado di prendersi davvero cura di loro. Il 47% non saprebbe a chi rivolgersi in caso di urgenza o necessità. Siamo sicuri che le responsabilità siano solo dei nostri figli? Oppure è il mondo adulto che ha spezzato quella catena di valori e regole condivise che lega il susseguirsi delle generazioni?
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Fonte : Repubblica