A metà aprile si è concluso il primo corso di “de-colonizzazione” della Russia, tenuto on-line da professori di varie parti del mondo, a cui hanno partecipato decine di “studenti” e attivisti dei movimenti indipendentisti di Buriazia, Calmucchia, Udege (un popolo indigeno del sud-est della Siberia), Cecenia, Inguscezia, Carelia e molti altri. Tra i “docenti” vi sono lo storico ucraino Sergyj Gromenko, la culturologa ucraina Oksana Litvinenko, il dissidente polacco Petr Mintser, lo storico dell’arte russo-ucraino Konstantin Akinša, la critica letteraria americana Eva Tompson e vari esperti dell’argomento, come Aleksandr Etkind (famoso psicologo sovietico, poi culturologo americano) e Sergej Abašin, un antropologo moscovita. Tra gli organizzatori del corso vi è il filosofo russo Mikhail Judanin, nato e cresciuto a Novosibirsk al centro della Siberia, poi trasferitosi in Israele e quindi in America, dove insegna all’università della Georgia. È “l’altra Russia” di cui parla lo scrittore russo-georgiano Boris Akunin, quella al di fuori dei confini, che però ha un ruolo importante anche per chi vive nella Russia imperiale putiniana, e spera in una ricostruzione completamente diversa di “tutte le Russie” negli anni a venire.
La questione del post-colonialismo in Russia è il grande tema di sottofondo imposto dalla guerra russa in Ucraina, uno degli effetti contrari ottenuti dalle manie di grandezza del “Putin collettivo”. Dietro le pretese del “mondo russo” ci sono le aspirazioni del “mondo non russo”, dei tanti popoli che da secoli sono sottoposti alla dominazione imperiale di diverse ideologie, da quella zarista a quella sovietica, e oggi dalla visione eurasiatica kirill-putiniana, che prendendosela con l’Ucraina ha di fatto scoperchiato il vaso di Pandora di tutta la storia russa. Nessuno può prevedere come andrà a finire la guerra mondiale scatenata dal Cremlino, ma molti immaginano che al posto della Federazione russa e delle sue cento regioni potranno crearsi molti Stati diversi, chi dice dieci e chi cinquanta. Su 145 milioni di cittadini, i russi sono al massimo 80 milioni (di etnia molto mista), e il resto varia dagli ugro-finnici ai caucasici, dai turanici ai mongoli, passando per gli europei orientali di vario ceppo fino ai cinesi, che sempre di più occupano i territori estremo-orientali.
Da sempre in queste terre si verifica un confronto tra oppressi e oppressori, in dimensioni che non hanno uguali al mondo: se negli Stati Uniti solo oggi emergono i sensi di colpa per l’emarginazione dei nativi da parte dei coloni giunti dall’Europa, in Russia fin dalle origini il popolo dominante si afferma a scapito delle etnie minori, come narrano le cronache medievali fin dai tempi della Rus’ di Kiev. Allora la scelta del battesimo bizantino fu il risultato del confronto tra l’islam dei Bulgari di Volga, l’ebraismo dei Khazari del Caucaso e il cattolicesimo latino dei nemtsy, i “muti” privi dello slovo, la “parola” degli slavi, un termine che oggi si applica ai tedeschi e che allora indicava tutti gli occidentali. Queste varianti scartate, per poi scegliere la “grande bellezza” del cristianesimo di Santa Sofia di Costantinopoli, sono però sempre rimaste legate alla Russia nei secoli successivi, aggiungendo poi le varianti asiatiche del “giogo tartaro” e della conquista della Siberia, tra la fine del Medioevo e i secoli moderni e contemporanei.
Il colonialismo, del resto, non è un’invenzione dei russi, anzi è in un certo senso la vera radice di tutti gli imperi e gli Stati del Mediterraneo e dell’Europa, dai greci di Alessandro Magno ai romani di Giulio Cesare, per poi darsi il cambio tra i vari tentativi della translatio imperii di quasi tutti i popoli europei e americani. La Grecia antica cercava terre fertili da coltivare, mentre nei tempi moderni si affermano le metropoli dei padroni che controllano vasti territori da sfruttare economicamente e controllare militarmente, e la Russia è rimasta in questo senso alle varianti del secondo millennio. A parte i due secoli pietroburghesi di tendenza occidentale, in Russia permane il dominio della capitale eurasiatica di Mosca, un altro mondo rispetto al resto del Paese, e gli anni putiniani hanno in gran parte rilanciato questo modello: a Mosca si vive nel lusso, nella pace e nella concordia, e il resto del Paese e del mondo intero può soltanto alimentare la sua superbia, solo in parte condivisa con San Pietroburgo, Nižnij Novgorod, Novosibirsk e poche altre metropoli.
Secondo Judanin, il colonialismo si produce “non dalla concorrenza dei commercianti, ma quando un brigante incontra l’uomo d’affari nel cortile, gli spacca la testa con un’asta e gli ruba tutti i soldi… la colonizzazione è un effetto dell’uso della forza”. Poi col tempo i colonizzatori cominciano a credere di meritarsi la posizione dominante per alcune loro qualità particolari, e così “nasce il mito della gerarchia mondiale dei popoli, ritenendo normale e legittimo che chi ha in mano il fucile debba comandare su quelli che hanno solo l’arco e le frecce”, come nella narrativa del Far West americano e prima ancora del Far East siberiano, dove i cosacchi già rappresentavano nel Cinquecento quelli che saranno i cowboys dell’Ottocento, e oggi sono le armate russe in Ucraina. La retorica dei “combattenti superiori”, del resto, ha alimentato la ferocia delle varie squadre di invasori, dalla compagnia Wagner del “cuoco arrostito” Evgenij Prigožin alla divisione Akhmat dei ceceni, agli ordini del colonizzatore caucasico Ramzan Kadyrov, gli eroi putiniani della “operazione speciale”.
Il filosofo spiega che “l’economia coloniale va sempre a braccetto con varie forme di razzismo”, come ad esempio l’obbligo imposto all’Uzbekistan e al Turkmenistan di coltivare soltanto il cotone, escludendo tutte le altre colture, ciò che ancora oggi impone raccolte schiavistiche a cui sono costretti anche gli studenti di questi Paesi. La suddivisione dei settori di produzione era un progetto iniziato già durante l’impero degli zar, e poi perfezionato dal regime sovietico per realizzare la “partecipazione dei popoli” al grande progetto del socialismo universale, senza pensare alle disastrose conseguenze sull’ecologia di tutta l’Asia centrale e di altri territori. Non è un caso che oggi gli uzbeki, i turkmeni e i tagichi organizzino grandi “festival della tessitura” per rifarsi delle umiliazioni secolari, quando il cotone raccolto veniva portato in Bielorussia per comporre i “capolavori” di cui gli asiatici erano ritenuti incapaci.
Per giustificare la propria visione coloniale, oggi i russi ritrovano argomenti antichi e ne immaginano di nuovi. La Russia ha da sempre un complesso da elaborare, quello di essere un impero di terra senza sbocchi sul mare, invidiando i domini britannici, spagnoli, olandesi e altri che spaziavano per gli oceani; nell’attuale guerra in Ucraina, più che il Donbass ai russi interessava la Crimea (luogo simbolico da sempre) e le rive del mar Nero, e più che la conquista di Kiev si cerca di arrivare a Odessa, per imporsi poi fino al Mediterraneo. Un altro sogno che preannuncia future catastrofi è quello del controllo del Mar Glaciale Artico, che con il riscaldamento globale è sempre meno glaciale, e potrebbe liberare nuove “colonie” da conquistare; del resto, fin dal Seicento i russi avevano attraversato lo stretto di Bering per conquistare l’Alaska, giungendo fino alla California poi venduta agli americani, in un corto circuito degli imperi d’Oriente e Occidente.
Secondo le classiche impostazioni del colonialismo russo, oggi ravvivate dall’idea del “mondo russo” ortodosso, la Russia non opprime i popoli minori, anzi li protegge e li fa crescere nell’integrazione economica, culturale e religiosa. Nel recente Nakaz, il decreto del Concilio mondiale ispirato dal patriarca Kirill, si sottolinea l’importanza dell’opera della Chiesa ortodossa anche nei rapporti con l’islam, il buddhismo e le altre religioni locali fino allo sciamanesimo asiatico, che grazie al cristianesimo patriarcale si assimilano alla grande sobornost patriottica, l’educazione dei popoli alla difesa dalle invasioni e dalle eresie. La resistenza alla “degradazione morale” occidentale, motivo spirituale della guerra in Ucraina, esalta la superiorità dei “valori tradizionali” proclamati dal patriarca anche per le altre religioni, essendo “valori universali” che i russi hanno il diritto e il dovere di affermare a tutte le latitudini. Colonizzazione che diventa evangelizzazione, sobornost ecumenica della de-nazificazione e russificazione, questi sono i ritornelli della rinascita imperiale della Russia.
Un altro termine utilizzato nei tempi sovietici era la korenizatsija (da koren = radice), una politica etnica imposta sotto Stalin, il dittatore georgiano che voleva essere più russo dei russi, anche se parlava con forte accento caucasico. Allora vigeva l’ideologia anti-religiosa, e invece di metropoliti e muftì si aggregavano i segretari di partito e gli alti funzionari, per costituire una élite di “uomini nuovi” di nazionalità sovietica e non più legata alle origini di sangue. Le “radici” oggi sembrano però non avere più il terreno fertile delle colonie antiche, e i tanti popoli dell’Eurasia sopportano sempre di meno la dittatura imperiale dei russi: dopo aver invaso l’Ucraina e minacciato gli altri Paesi dell’Europa orientale, del Caucaso, della Siberia e di tutta l’Asia, c’è il rischio che la Russia sia costretta a invadere sé stessa, rimanendole soltanto la possibilità della auto-colonizzazione.
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Fonte : Asia