Domenico Tambasco, avvocato e tra i massini esperti in Italia di diritto del lavoro, con questo editoriale comincia la sua collaborazione con Today.it.
Cosa sta succedendo in Cassazione? È una domanda che nelle ultime settimane serpeggia tra gli addetti ai lavori, alle prese con un’autentica pioggia di annullamenti pronunciati dalla sezione Lavoro della Suprema corte, che ha ”bacchettato” severamente l’operato di numerose corti d’appello sparse per l’intera penisola. Il tema, manco a dirlo, è quello del mobbing che, da vent’anni a questa parte, domina incontrastato il contenzioso lavorativo, nonostante le percentuali di successo nelle aule dei tribunali siano state fino a oggi molto ridotte, come evidenziato anche da un recente studio promosso dall’Organizzazione internazionale del lavoro.
Nel giro di poco più di un mese, ben otto ordinanze degli Ermellini emesse in altrettante cause hanno infatti letteralmente ridisegnato la materia delle vessazioni lavorative e, più in generale, della conflittualità all’interno dei luoghi di lavoro, destando non poca preoccupazione in numerosi uffici del personale. La questione in sé e per sé è semplice: se fino a ieri per denunciare una condotta mobbizzante si doveva provare rigorosamente non solo il fatto nella sua oggettiva esistenza, ma anche lo specifico intento persecutorio del proprio presunto ”carnefice” (prova diabolica, considerato lo scoglio di dimostrare l’intima volontà della persona), oggi invece non è più necessario.
La responsabilità del datore di lavoro
Basterà, recita testualmente la Cassazione, ”valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”. Il che significa – al netto del ”giuridichese” – cambiare radicalmente prospettiva, attraverso l’utilizzo di un numero che, analogamente alla password del telefono o del pc con cui state leggendo questo articolo, consente di aprire ogni porta lavorativa: 2087, corrispondente all’articolo del codice civile che, da quasi ottant’anni, fonda l’intero sistema della sicurezza sul lavoro in Italia (nella foto sotto, la prima presidente della Corte di cassazione, Margherita Cassano).
Per farla breve, quello che interessa oggi ai giudici non è più la singola condotta vessatoria del collega di lavoro o del vostro capo. Al contrario, i riflettori sono puntati sui fattori organizzativi e ambientali, formula astratta che, in concreto, si traduce nella responsabilità del datore di lavoro anche per il mantenimento di condizioni stressogene o non rispettose dei principi ergonomici (di ”contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia” – Cassazione, 19 gennaio 2024, n. 2084).
Cosa dice di nuovo la Cassazione
Si tratta di una tendenza (tecnicamente si parla di ”orientamento giurisprudenziale”) ormai consolidata, che è animata dallo scopo di ampliare la tutela risarcitoria a favore dei lavoratori e delle lavoratrici, condannando tutti quei comportamenti idonei a creare un ambiente lavorativo ”stressogeno” e lesivo della salute e della dignità di ciascuno, trattandosi di beni primari tutelati dalla Costituzione.
La formula, ripetuta da oltre un anno in tutte le sentenze, dichiara infatti ”illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori”, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’articolo 2087 del codice civile (Cassazione, 7 febbraio 2023, n. 3692).
L’impatto sulla vita di tutti i giorni
Come impatta questo principio sulla vita lavorativa di tutti i giorni? In modo molto rilevante, possiamo rispondere senza ombra di dubbio. Oggi, infatti, sotto la ”lente di ingrandimento” degli uffici del personale dovranno finire non soltanto le semplici vessazioni (dove, come è noto, abbiamo un aggressore e una vittima) ma anche i conflitti in cui si fronteggiano, spesso ad armi pari, due contendenti.
Ecco che la conflittualità lavorativa tra colleghi (o tra subordinati e superiori) assume un diverso significato rispetto al passato, poiché gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro (un tempo irrilevanti), valgono oggi a segnare di per sé la responsabilità risarcitoria dei datori di lavoro che non abbiano colposamente né prevenuto né rimosso un ”clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni” (Cassazione, 16 febbraio 2024, n. 4279), o un ”contesto di conflittualità all’interno dell’istituto” (Cassazione, 12 febbraio 2024, n. 3791) o, ancora, ”una situazione di tensione interpersonale venutasi a creare sul luogo di lavoro” (Cassazione, 26 febbraio 2024, n. 5061). Il datore, infatti, ha sempre l’obbligo di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative (Cassazione, 10 novembre 2017, n. 26684). Litigare sul lavoro costa, non soltanto in termini di salute.
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Fonte : Today