“Ho giocato 30mila ore con i videogiochi: erano la mia unica ragione di vita”

“Ho passato dai 14 ai 25 anni a giocare con i videogiochi online, perdendo oltre 30mila ore della mia vita. Sono stato così male da non voler più vivere. È capitato a me, ma questa cosa succede anche ad altri”. Mario, 31 anni della provincia di Brescia, ha raccontato a Today.it la sua dipendenza da videogiochi iniziata durante l’adolescenza e il calvario che ha dovuto affrontare per superarla.

“Si viene risucchiati in un circolo vizioso dal quale è praticamente impossibile uscirne da soli, bisogna farsi aiutare”.

Mario (nome di fantasia) ha iniziato a giocare con i videogiochi da giovanissimo: dai 6 ai 10 anni con una console portatile; dai 10 ai 13 con le console e il computer; dalle medie in poi anche con gli smartphone. “Giocavo per 8 – 10 ore al giorno, anche di notte. Ero arrivato al punto di portarmi un gioco sul cellulare anche quando uscivo con gli amici, quando andavamo al cinema, a giocare a biliardo o al ristorante. I videogiochi erano diventati la mia ragione di vita”, ha raccontato a Today.it.

“I problemi veri sono arrivati alle superiori, a 14 anni, quando ho conosciuto i giochi online. Mano a mano che crescevo diventavo sempre più introverso, mi chiudevo al mondo esterno. Poi ho iniziato ad avere pensieri paranoici, a lasciare i lavori perché stavo male, a non voler più vivere”. Nel 2015, quando aveva 23 anni, dopo varie insistenze da parte del padre si rivolge a un centro di cura specializzato. Sapeva benissimo di avere una dipendenza ma non gli importava. “Sto lì solo per pochi giorni, poi torno a casa a giocare”. Questo era il suo piano.

Dipendenza da videogiochi: 500mila adolescenti a rischio

Nel 2017 Mario sta così male da arrivare a pensare al suicidio e così fa un altro tentativo, ma questa volta è lui a decidere di farsi aiutare. “Inizialmente alternavo periodi in cui stavo bene a periodi in cui avevo pensieri di tipo paranoico. Credevo che tutte le persone che incontravo fuori casa, anche quelle che non conoscevo, volessero in qualche modo inviarmi un messaggio in codice per farmi capire che loro sapevano qualcosa di me. Stare in luoghi affollati, fare la spesa, uscire, mi faceva stare malissimo. Con il passare degli anni questi pensieri sono diventati sempre più forti e mi venivano sempre più spesso. Volevo farla finita”.

Raccontando della sua dipendenza dice di non aver mai avuto sintomi fisici, tranne una volta quando ha accusato dei forti crampi alle gambe. “Una somatizzazione fortissima”, perché sapendo che gli avrebbe fatto bene aveva deciso di uscire. Ma c’erano anche notti in cui faceva fatica ad addormentarsi a causa di quei “pensieri intrusivi”. Capitava anche per 2 o 3 notti consecutive e stava talmente male da non riuscire nemmeno a giocare.

“È praticamente impossibile uscirne da soli”

Mario è solo uno dei tanti ragazzi che ha sperimento sulla propria pelle la video game addiction (Vga), l’uso compulsivo dei videogiochi. In Italia almeno 700mila adolescenti sono a rischio dipendenza da web, social e videogame, 500mila dei quali dal gaming. “È difficile accorgersi da soli quando inizia a diventare una dipendenza, c’è una linea sottilissima di confine – racconta -, ed è praticamente impossibile uscirne da soli”.

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Laura Verbena, psicologa e responsabile Siipac, ha spiegato a Today.it che ci sono vari modi per aiutarli, a seconda del caso e della gravità: si parte con la psicoterapia ambulatoriale, la terapia di gruppo per poi finire – nei casi più gravi – in comunità. Il tasso di guarigione è alto. Del 76 per cento rivela la psicologa riportando i dati del 2021 relativi a tutti i pazienti affetti da dipendenza psicologica in cura presso la struttura in cui lavora: gioco d’azzardo, cibo, internet, shopping, sesso, pornografia, sport, affetto, lavoro, dolore, nomofobia.

“Secondo me i videogiochi sono progettati apposta per tenerti sempre lì attaccato. Questa però non vuole essere una scusa per dire che è colpa loro, sono stato io che per una serie di dinamiche ci sono caduto”. Mario ci tiene a sottolineare che “non bisogna dare e non bisogna darsi colpe. Sono cose che capitano, succede e basta, come qualsiasi altra malattia”.

“Sono cose che capitano, succede e basta, come qualsiasi altra malattia”.

I fattori scatenanti sono tanti e complessi: dinamiche familiari favorevoli alla dipendenza, problemi di vario genere, bassa autostima, solo per citarne alcuni. “Nel mio caso i videogiochi bilanciavano la mia bassa autostima. Però più diventavo bravo nei videogiochi, più mi isolavo. Più mi isolavo, più la mia autostima si abbassava. Più la mia autostima si abbassava, più giocavo. Un circolo vizioso. Ma questo è solo uno dei tanti motivi”.

L’esperienza in comunità

Mario è entrato in comunità a 25 anni: era “molto spaesato, introverso, chiuso” ma le persone che vivevano lì, anche quelle con una dipendenza diversa dalla sua, hanno iniziato ad aiutarlo. “Avevo poca autonomia, mi hanno dato una mano con le lavatrici, a fare la spesa, a preparare la colazione e la cena”.

Il percorso di cura è stato lungo e difficile, con tanti alti e bassi, “ma il tempo ha dato i suoi frutti”. Racconta di aver avuto crisi anche più forti di quelle avute in precedenza e di aver iniziato in un certo senso a conviverci. “Ho dovuto sputare sangue per stare meglio, ci sono voluti anni di terapia. I primi risultati sono arrivati dopo qualche mese. Poi più si va avanti meglio si sta. Ho pensato di potercela fare solo quando ho ricevuto un messaggio di sostegno da parte della mia famiglia”.  

La nuova vita di Mario

Oggi Mario è un uomo felice, è sposato da un anno e mezzo, ha un lavoro che gli piace tanto, anche perché collegato all’uso del computer. La dipendenza per lui non si riduce solo a un’esperienza negativa, gli ha insegnato anche tante cose importanti. Si ritiene fortunato per aver avuto degli amici che gli sono stati accanto “nei momenti peggiori, quando dicevo cose che non avevano senso”. Adora passare del tempo con il proprio cane e i suoi gatti, fare lunghe passeggiate, stare in mezzo alla natura e uscire con i colleghi di lavoro.

Ai ragazzi che come lui trascorrono troppo tempo davanti ai videogiochi consiglia di ascoltare di più i genitori e di valorizzare i rapporti umani piuttosto che quelli virtuali. Ma non basta: “Bisogna investire di più nella prevenzione, andando nelle scuole per far capire che queste cose sono pericolose. E poi parlare ai genitori, come ad esempio a quelli che danno a bambini che non sanno nemmeno parlare il cellulare solo per farli stare buoni”.

Fonte : Today