A poco più di due mesi dalle prossime elezioni europee, ci sono timide speranze che l’affluenza alle urne a giugno aumenti rispetto all’ultima volta. Ma portare i cittadini a votare per il Parlamento di Strasburgo è un’impresa storicamente difficile, tanto che negli anni le percentuali di chi si è recato ai seggi sono diminuite costantemente. Il voto del 2019 ha segnato il primo aumento nella storia delle elezioni europee, ma non è chiaro se quell’evento positivo potrà essere ripetuto.
Inversione di tendenza?
Quando, nel lontano 1979, i membri dell’Eurocamera furono eletti per la prima volta (prima venivano designati dai parlamenti nazionali e non direttamente scelti dai cittadini), quasi il 62% degli aventi diritto di voto negli allora otto Stati membri decisero di recarsi alle urne. In Italia andò a votare ben l’85,65% della popolazione, in Germania quasi il 66 e nel Regno Unito, dove lo spirito europeista non è mai stato forte, come ha dimostrato poi l’esito della Brexit, appena il 32,5%. Da quel momento, nonostante l’Aula di Strasburgo abbia ottenuto poteri sempre maggiori (e quindi, in teoria, sarebbe dovuta apparire sempre più “importante” agli occhi degli elettori), il trend dell’affluenza è stato in perenne declino fino a toccare il minimo storico nel 2014, quando si è fermato a livello comunitario al 42,61%.
Uno sviluppo già poco edificante di per sé, e che lo è ancora meno se si considera che in questi 45 anni il club europeo è arrivato a contare 27 Paesi e oltre 448 milioni di cittadini. Ovviamente, le cause di un fenomeno così complesso sono molteplici, ma una delle più frequentemente citate è che l’Ue rimanga ancora troppo distante e incomprensibile per una fetta decisamente ampia della popolazione, tanto più larga quanto più è basso il suo status socio-economico.
Le cose sono andate diversamente nel 2019, quando è stata eletta la legislatura uscente: in quell’occasione, quando appena più della metà degli elettori (il 50,66%, secondo i dati dell’Eurobarometro) ha deciso di dare il proprio voto, in un picco di partecipazione ventennale (per trovare un’affluenza superiore al 50% bisogna tornare indietro al 1994). All’epoca si è parlato di un “punto di svolta” per la democrazia europea, ma perché quella svolta sia reale occorre che il trend positivo venga riconfermato nel voto del prossimo giugno. Diversi osservatori ritengono che l’affluenza possa effettivamente aumentare anche nel 2024, dato che l’Europa è entrata in maniera più ingombrante nel dibattito pubblico negli ultimi anni (complici la pandemia da Covid-19 e, soprattutto, la crisi ucraina) ma c’è ancora parecchia cautela nell’aria. E non senza ragioni.
Competizioni nazionali
Come sottolinea il sito Politico, uno dei problemi principali che affliggono le elezioni europee è il fatto che queste elezioni non sono “europee” nel pieno senso del termine. In realtà, si tratta di 27 competizioni distinte che avvengono su base nazionale: i cittadini italiani votano per candidati italiani, i quali incentrano la loro campagna elettorale prevalentemente su questioni di politica interna. Insomma, mancano sia un vero respiro europeo delle tematiche attorno a cui s’incentra il dibattito politico, sia una legge elettorale comune che armonizzi la pratica del voto tra tutti gli Stati membri.
La questione relativa al secondo punto è prettamente tecnica, e dipende dal fatto che il Consiglio (nonostante le pressioni degli eurodeputati) non ha ancora uniformato le modalità delle elezioni tra i Ventisette: ad esempio, introducendo regole comuni riguardo alla data del voto, alle soglie di sbarramento, all’età dell’elettorato attivo e passivo, alla definizione delle liste eccetera. Quanto al primo punto, invece, il discorso è più politico. Il fatto che le campagne elettorali si concentrino su temi perlopiù domestici deriva dal fatto che il voto degli europei avvenga a livello nazionale e non transnazionale: se ci fosse un’unica circoscrizione pan-europea, sostengono voci come quella dell’eurodeputato liberale Sandro Gozi, a Strasburgo verrebbero eletti parlamentari realmente europei e le campagne elettorali sarebbero costruite su tematiche che interessano l’intero continente.
Le cifre delle europee
Sia come sia, il risultato è che fin dall’inizio l’affluenza alle elezioni europee è stata sensibilmente più bassa rispetto a quella relativa alle elezioni nazionali, legislative o presidenziali che fossero. Stando alle stime di Politico, il divario (in termini aggregati) era di oltre 20 punti percentuali nel 1979 e si è ridotto a circa 10 punti nel 2019: ma non è stata tanto l’affluenza alle europee ad impennarsi in questo periodo quanto, piuttosto, quella alle elezioni domestiche a ridursi (da quasi l’86% a circa il 61%).
Come al solito, i dati numerici della partecipazione nel blocco parlano di una realtà piuttosto variegata, con differenze anche sostanziali tra un Paese e l’altro. Così, l’ultima volta che si è votato per l’Eurocamera cinque anni fa, in Belgio (dove il voto è obbligatorio) sono andati alle urne quasi nove elettori su dieci (88,47%), mentre in Slovacchia meno di uno su quattro (22,74%). L’Italia si è posizionata poco sopra la media Ue (50,66%) con un’affluenza del 54,5%: meno della Germania (61,38%) e della Spagna (60,73%), ma più della Francia (50,12%) e dei Paesi Bassi (41,93%).
Ma con i numeri bisogna sempre fare attenzione agli effetti ottici. È forse più utile osservare la variazione della partecipazione nel 2019 rispetto al 2014: in sette Stati oltre all’Italia (Belgio, Irlanda, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Romania) l’affluenza alle urne è calata in cinque anni, in alcuni casi (a Sofia e Lisbona) di quasi 9 punti percentuali, mentre gli aumenti maggiori in termini relativi si sono registrati in Polonia (che ha sfiorato un +92%) e Slovacchia (+74%), seguite da Romania e Repubblica Ceca (che hanno segnato un quasi +58% ciascuna). Insomma, oltre ai dati assoluti cristallizzati in un momento preciso, è importante riconoscere il percorso dei vari elettorati nazionali: in altre parole, per quanto l’affluenza nei membri centro-orientali sia oggettivamente sotto la media Ue, questi stessi Paesi sono quelli in cui la partecipazione tra i cittadini è cresciuta di più. Infine, l’aumento più consistente della partecipazione nel 2019 è stato osservato nella fascia dei più giovani (15-24 anni), anche se in termini assoluti il gruppo demografico che tende a votare più frequentemente è quello degli over 55.
Fonte : Today