Perché il ponte di Baltimora è crollato in pochi istanti: l’analisi dell’esperto

Un ponte di Baltimora è caduto in pochi istanti dopo l’impatto con una barca. L’andamento del crollo è legato alla tipologia della struttura che in gergo tecnico definiamo isostatica: in questi casi basta la rimozione di una singola parte per innescare il collasso.

Intervista a Paolo Franchin

Professore ordinario di Tecnica delle Costruzioni presso l’Università Sapienza di Roma. 

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All’1.30 di questa notte (6.30 ora italiana) a Baltimora, Maryland, (USA), una nave cargo battente bandiera di Singapore ha urtato il Francis Scott Key Bridge. Il ponte si è spezzato, crollando nel fiume Patapsco. Il numero di persone coinvolte nella catastrofe è ancora ignoto, le ricerche sono in corso. “Non è chiaro cosa sia successo, si tratta presumibilmente di un incidente, un errore umano”, ha spiegato a Fanpage.it Paolo Franchin, professore ordinario di Tecnica delle Costruzioni presso l’Università Sapienza di Roma.

I video pubblicati su X mostrano il ponte che collassa su sé stesso, tutte le parti del ponte sono crollate come tessere del domino. “Un crollo di questo tipo è spesso legato alla tipologia della struttura, che in gergo tecnico definiamo isostatica” spiega Franchin. “Sono strutture che stanno in piedi solo quando tutti i pezzi che le compongono stanno svolgendo il proprio ruolo, basta la rimozione di un singolo pezzo perché crollino. Un altro importante fattore è la natura dinamica delle forze durante un crollo. La rimozione del peso della porzione crollata avviene all’improvviso, generando forze molto più elevate e di senso magari contrario a quelle per cui la struttura è progettata.”

Per decenni abbiamo costruito strutture simili, il motivo è che sono più semplici da calcolare, “una delle cose più pericolose che può fare un ingegnere è fare qualcosa che non sa controllare con i calcoli. E noi fino a qualche decennio fa non avevamo a disposizione gli strumenti di calcolo che abbiamo oggi. Quindi si tendeva a costruire strutture facilmente controllabili con i calcoli manuali”. Il Francis Scott Key Bridge è stato aperto al traffico il 23 marzo 1977.

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“È una triste considerazione, specie quando ci sono vittime, ma gli incidenti sono una lezione preziosa per apportare correzioni. La storia dell’ingegneria civile è segnata da momenti di avanzamento proprio in corrispondenza di crolli importanti e inattesi.”

Non è la prima volta che un ponte crolla in questo modo

Il caso del Francis Scott Key Bridge non è isolato. In Svezia, per esempio, nel 1980 il ponte di Almö è crollato dopo che la nave MS Star Clipper ha colpito l’arco del ponte, facendo crollare la campata principale. “Un caso simile, di struttura isostatica, è anche quello del ponte Morandi”, crollato a Genova il 14 agosto 2018. 

“In realtà sono tre ponti diversi, quello di Baltimora è un ponte a struttura reticolare a tre campate, il ponte Morandi invece aveva le campate strallate, quello svedese era ad arco. Tutti e tre però erano ponti isostatici, per cui la rimozione di un singolo elemento ha comportato un crollo”, spiega Franchin. “Gli ingegneri non hanno sbagliato, hanno fatto quello che potevano fare con lo stato di conoscenze di allora.”

Come funzionano i ponti iperstatici

Si possono costruire ponti isostatici, ma anche iperstatici, a differenza dei primi se si rimuove un supporto intermedio il collasso è probabilmente parziale, “questo vuol dire che se c’è qualcuno al momento dell’impatto e non sta sulla campata che crolla riesce a salvarsi, sono più sicuri da questo punto di vista, ma non è detto che siano migliori”, aggiunge Franchin.

“Noi costruiamo sia ponti isostatici che ponti iperstatici, anche perché ci sono situazioni in cui un ponte isostatico è un’ottima soluzione. Il ponte isostatico ha dei vantaggi che un iperstatico non ha, ad esempio è in grado di assorbire piccoli cedimenti del terreno senza problemi”.

Quali sono le possibili soluzioni

“Una possibile soluzione potrebbe essere per esempio un ponte sospeso che ha i piloni sulle rive del fiume, in questo caso si elimina a monte il problema perché è impossibile che una nave ci vada a sbattere contro”, spiega Franchin. È chiaro però che ci sono casi in cui non è possibile costruire ponti del genere, per esempio perché lo spazio da superare è troppo grande. In questi casi, con le pile in alveo, “si potrebbero costruire piccole isole artificiali intorno alle pile, per creare una barriera”. Una soluzione che potrebbe essere adottata anche per mitigare il rischio per i ponti simili a quello di Baltimora.

“È importante capire però che anche quando prendiamo coscienza di un problema delle nostre infrastrutture, la soluzione non può essere immediata e richiede uno sforzo finanziario prolungato per decenni. I fondi necessari saranno da trovare diminuendo quelli destinati ad altre voci, come la sanità o l’istruzione o la sicurezza. Alla fine, non è un problema di ingegneria, ma un problema di priorità strategiche di uno Stato. È una scelta socio-economica.

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Fonte : Fanpage