No alla materia oscura, atto secondo. Dopo il lavoro di cui vi avevamo parlato la settimana scorsa, quello in cui due fisici dello University College London hanno riformulato la teoria della gravità e inferito che forse l’esistenza della materia oscura non è così necessaria come pensa la maggior parte della comunità scientifica, arriva oggi un nuovo studio dello stesso tenore, pubblicato su The Astrophysical Journal da Rajendra Gupta, della University of Ottawa. Il lavoro appena uscito postula che l’Universo abbia quasi 27 milioni di anni – più o meno il doppio rispetto a quanto si stima finora – e, per l’appunto, che la materia oscura non sia necessaria all’esistenza dell’Universo stesso.
Se si parla così tanto della materia oscura è perché da un lato c’è il fatto che diverse osservazioni sperimentali, ormai consolidate e ritenute attendibili dalla comunità scientifica, sembrano implicare irrimediabilmente la sua esistenza, e dall’altro il fatto che non siamo ancora riusciti a osservarla direttamente. Tutte le prove dell’ipotetica esistenza della materia oscura sono, insomma, ancora indirette, e per di più non si sa di cosa sia fatta e come si comporti: in teoria dovrebbe interagire con la materia ordinaria solo attraverso la forza di gravità, ma non è chiaro in che modo. Per quanto riguarda l’altro punto, ossia l’età dell’Universo, le stime attuali del modello cosmologico standard fissano il “momento zero” a circa 13,8 miliardi di anni fa, con il Big Bang; ma anche su questo esistono delle ipotesi divergenti. Diverse ricerche, per esempio, hanno suggerito che l’Universo potrebbe essere ben più giovane di così, perché sarebbe in espansione a una velocità più alta di quanto rivenuto in precedenza.
Cosa dice la teoria del fisico Rajendra Gupta
L’ipotesi di Gupta va nella direzione opposta, e cioè “invecchia” l’Universo di altri 14 miliardi di anni. Lo scienziato lo aveva già proposto qualche mese fa, formulando sulle pagine della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society** **una nuova teoria cosmologica basata su un’ipotesi precedente (e abbandonata da anni) relativa al comportamento della luce. Sappiamo con certezza che gli oggetti celesti luminosi e distanti appaiono un po’ più rossi rispetto a quanto dovrebbero essere perché l’Universo è in espansione, e quindi le onde luminose emesse da queste sorgenti vengono “allungate” per via dell’effetto Doppler: più rossa appare la luce, dunque, più è vecchia, perché significa che origina da punti più distanti e che ha viaggiato per più tempo prima di essere rilevata dai nostri strumenti di misura. È proprio grazie a questa considerazione e alle osservazioni sperimentali che siamo riusciti a risalire a ritroso al momento di origine dell’Universo, stimato, come dicevamo, a quasi 14 miliardi di anni fa.
Tuttavia, e qui entra in gioco l’ipotesi di Rupta, quella appena illustrata non è stata l’unica proposta di spiegazione per lo spostamento verso il rosso delle radiazioni luminose. Nel 1929, l’astronomo svizzero Fritz Zwicky suggerì che viaggiando su simili distanze la luce perdesse energia (per questo motivo l’ipotesi fu chiamata “della luce stanca”) e si spostasse dunque verso il rosso; l’idea, comunque, non venne ritenuta abbastanza convincente e venne abbandonata. È stato proprio Rupta a recuperarla e riadattarla alla luce delle osservazioni sull’espansione dell’Universo: in fondo – sostiene il fisico – non si escludono a vicenda, e anzi la loro unione potrebbe spiegare fenomeni che non si riescono a far rientrare nel modello cosmologico attuale. Uno dei grattacapi degli astrofisici, per esempio, è capire perché le galassie dell’universo primordiale (quelle che finalmente si riescono a vedere bene grazie alle osservazioni del James Webb Space Telescope) siano più piccole del previsto. Riesumare l’ipotesi della luce stanca potrebbe fornire una spiegazione: se la luce perde energia, diminuisce anche la quantità di moto dell’onda luminosa, influenzando l’aspetto di oggetti molto distanti.
In gergo più tecnico, la riformulazione dell’ipotesi della luce stanca si chiama CCC+TL, ossia “costanti di accoppiamento covarianti + tired light”, e tra le sue conseguenze, oltre alla retrodatazione del momento di origine dell’Universo, c’è anche la “scomparsa” della materia oscura, come dicevamo. Nell’articolo appena pubblicato, Gupta utilizza il CCC+TL per spiegare il fenomeno delle “fluttuazioni della materia visibile [cioè ordinaria, insomma non oscura] nello spazio” e la radiazione cosmica di fondo, ossia l’“eco” del Big Bang, e arriva alla conclusione che il suo modello è efficace nello spiegare tutti i fenomeni osservati senza dover “scomodare” l’esistenza della materia oscura. Rimane ora al resto della comunità scientifica l’onere di valutare questo modello. Nel frattempo, la materia oscura continua a (r)esistere.
Fonte : Wired