Non eravamo pronti a Dellamorte Dellamore

Francesco Dellamorte, bellissimo outcast con le fattezze di Rupert Everett (le stesse che avevano ispirato Tiziano Sclavi per l’identikit di Dylan Dog, colpo straordinario per il film) è il custode del cimitero della cittadina di Buffalora, dove per qualche motivo i morti hanno cominciato a tornare in vita entro una settimana dall’estremo saluto. A Dellamorte e al suo aiutante Gnaghi, che si esprime solo con un verso e che è interpretato dal musicista parigino François Hadji-Lazaro, il compito di stenderli per sempre. Fin qui nulla di sensazionale, se possibile nemmeno nelle ragguardevoli apparizioni di Anna Falchi in tre ruoli diversi ma affini, e ugualmente capaci di imprimersi nei sogni più impuri di chi ai tempi varcava le soglie dell’adolescenza. L’unicità di Dellamorte Dellamore era nel sottotesto. Anzi, proprio nel testo: nelle lunghe parole, nei dialoghi improbabili e divertenti, nell’umorismo nero giocato sul filo del fuorigioco, un attimo prima del ridicolo, ma con una profondissima coscienza di sé.

Il tempo del grande Argentismo era finito, tutto il meglio del maestro della paura era alle spalle e anche di parecchio, e Dellamorte Dellamore cercava una nuova declinazione dell’orrore in grado di non prendersi troppo sul serio, e allo stesso tempo di farlo maledettamente nella sua vocazione intellettuale: le grandi domande sulla vita e sulla morte, il senso comune di entrambe e le differenze sfumate l’una dentro l’altra fino a farle diventare inconfondibili, dentro il vestito dell’autoironia e del grottesco. Visionario, metafisico nell’ambizione eppure profondamente terreno, pieno di radici e dell’odore di decomposizione, ora etereo ora kitsch, Dellamorte Dellamore fu un Grand Guignol di oltre cento minuti tra horror, erotismo e filosofia che rappresentò qualcosa di singolare nello scenario ormai pigro del cinema di genere italiano, un’epoca probabilmente chiusa per sempre. E non doveva meravigliare che il film di Michele Soavi trovasse il grande pubblico disorientato da un’opera che con il mezzo dell’horror cercava coerentemente con il suo tempo altre forme espressive, e che persino la sua nicchia di aficionados ha amato senza spiegarsi bene il perché in quel momento. Ridendoci su, ridendo forse per la prima volta dopo tanto tempo della paura e sulla paura. Perché su quella nicchia Dellamorte Dellamore aveva fatto un lavoro profondo, e forse mai fatto prima: il cinema dell’orrore era morto, viva il cinema dell’orrore.

Un unicum del cinema italiano

Niente del genere è stato rifatto ovviamente in Italia: se pensi agli Stati Uniti pensi più a Zombieland che agli Scary Movies, ma sempre con una forte connessione con la parodia. Ma Dellamorte Dellamore non era neanche lontanamente una parodia. Semmai la consapevole ombra di sé di un genere al tramonto, o piuttosto la riflessione divertente e triste su un genere che più di tutti avrebbe pagato dazio al cambio di secolo. Ma trovava il modo di volersi imprimere col suo stile e i suoi mezzi nell’immaginario dei propri cultori, con la sensazione che da lì in avanti si sarebbero sentiti sempre più soli, marginali in una storia del cinema che sembrava andare da tutt’altra parte, per lo meno in questo Paese. Del resto Dellamorte Dellamore aveva una esplicita vocazione internazionale: coproduzione tra Italia, Germania e Francia, girato in lingua inglese, distribuito in America con il mortifero titolo di Cemetery Man, quel che è sicuro è che non lasciò indifferente la critica statunitense, fino a ricevere anche l’applauso di Martin Scorsese, che parlò del film di Michele Soavi come di uno dei migliori del cinema italiano degli anni Novanta. Certamente non era una cosa come tutte le altre: magari nessuna esplicita vocazione a essere il canto del cigno di un genere, piuttosto la voglia di percorrere la sua strada e i suoi temi, marcatamente letterari e spirituali, nella propria maniera.

C’erano gli effetti animatronici del miglior Sergio Stivaletti, la musica martellante e barocca di Manuel De Sica, c’era soprattutto un’idea di fondo molto precisa su microcosmo e macrocosmo, sulla società e sulle proprie comfort zone, per quanto macabre e piuttosto movimentate nelle ore notturne. “Il film è la rappresentazione di due mondi visivi contrapposti, il primo è il mondo dei morti: Francesco Dellamorte è un eroe romantico all’interno di uno spazio magico da lui creato a immagine e somiglianza, una messa in scena gotica ispirata alle distorsioni di Salvador Dalí e Arnold Böcklin” spiegava Michele Soavi in prossimità dell’uscita del film. “Un luogo di pace, di atmosfere sospese, dove tutto ha un suo ordine. Un luogo bello, insomma. Il secondo è il mondo dei vivi, fuori dal cimitero: il mondo reale, volgare, rumoroso, disarmonico e spigoloso. La burocrazia, l’impossibilità di essere ascoltati, di comunicare. L’avidità e la sopraffazione, come siamo noi umani nella peggiore versione della nostra specie. E Francesco Dellamorte è l’Estraneo, il diverso”.

Fonte : Wired