Perché l’attacco israeliano a Rafah costituirà l’evento cruciale della guerra a Gaza

Conflitto Israelo-Palestinese

Giuseppe Dentice: “L’attacco di Rafah costituisce sicuramente un momento cruciale nella guerra a Gaza; per le ambizioni di Israele, la sorte dei palestinesi, la risposta dei popoli arabi e quella della comunità internazionale”.

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Intervista a Giuseppe Dentice

Analista specializzato in Medio Oriente e Nord Africa del CESI (Centro Studi Internazionali) nonché dottore di ricerca in “Istituzioni e Politiche” presso la Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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L’offensiva a Rafah, dove vivono in condizioni disumane 1,4 milioni di sfollati palestinesi, ci sarà.

Ad annunciarlo è stato ieri il presidente israeliano Benjamin Netanyahu rispondendo alle pressioni arrivate dalla Casa Bianca, contraria a un intervento nella città più meridionale della Striscia di Gaza e preoccupata di una possibile reazione da parte dell’Egitto, per nulla intenzionato ad accogliere nel Sinai milioni di profughi palestinesi.

L’amministrazione Biden sta valutando diverse alternative a un’invasione di terra israeliana di Rafah e le proporrà alla delegazione israeliana di alto livello, condotta dal ministro della Difesa Gallant, che visiterà Washington la prossima settimana. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dal canto suo due giorni fa, rivolgendosi alla commissione Affari esteri e difesa della Knesset, ha dichiarato: “Dobbiamo tutti restare uniti contro la posizione degli Stati Uniti secondo cui non dovremmo andare a Rafah. Dobbiamo restare uniti contro queste pressioni, e ce ne sono alcuni, anche qui alla Knesset, che non stanno al nostro fianco”. Netanyahu ha detto a Biden che Israele è determinato a “completare l’eliminazione di Hamas”, a suo dire asserragliata proprio a Rafah.

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Ma quali saranno le conseguenze di un attacco nella città più meridionale della Striscia di Gaza? Fanpage.it ha interpellato Giuseppe Dentice, analista specializzato in Medio Oriente e Nord Africa del CESI (Centro Studi Internazionali) nonché dottore di ricerca in “Istituzioni e Politiche” presso la Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Giuseppe Dentice

Giuseppe Dentice

Secondo l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Tor Wennesland l’attacco a Rafah costituirà un momento cruciale della guerra. Perché?

Le ragioni sono molteplici. Dal punto di vista israeliano questa azione definirà la portata del successo della campagna militare e soprattutto della leadership di Netanyahu, che sta puntando tutto sull’operazione Rafah per vendere all’opinione pubblica interna una sorta di vittoria politica. Se il premier non dovesse raggiungere il suo scopo infatti verrà reputato per sempre come il colpevole morale dei fatti del 7 ottobre 2023. Insomma, per la leadership israeliana il successo dell’attacco a Rafah è determinante. Il problema è semmai che lo sarà per anche per tanti altri attori in gioco: per i palestinesi in primis, che sono la parte più debole e temono una nuova “Nakba”. A Rafah, dove normalmente vivevano circa 300mila abitanti, ora sono quasi un milione e mezzo. Che ne sarà di loro? L’unica possibilità sarà fuggire in Egitto, il quale verrà ritenuto responsabile di accogliere o respingere tutti questi profughi. Ci sono poi gli Stati Uniti, che finora non sono riusciti in alcun modo a fermare la violenza di Israele né a imporre a Tel Aviv delle linee rosse da non valicare. Per queste ed altre ragioni quindi sì, l’attacco di Rafah costituisce sicuramente un momento cruciale nella guerra a Gaza; per le ambizioni di Israele, la sorte dei palestinesi, la risposta dei popoli arabi e quella della comunità internazionale.

Proviamo ad entrare nel merito delle questioni: Biden ha detto chiaramente a Netanyahu di considerare un attacco a Rafah “un errore”. Tuttavia il leader israeliano ha annunciato che quell’operazione ci sarà. Quali conseguenze ci saranno nel rapporto USA-Israele?

Dopo i fatti del 7 ottobre gli israeliani hanno dimostrato un’ampia autonomia, tanto che anche nell’elettorato democratico americano stanno sorgendo molte voci di dissenso non solo tra radical, arabi e musulmani, ma anche all’interno dello stesso elettorato ebraico, che vive una forte diatriba: da un lato critica ferocemente Tel Aviv, dall’altro rifiuta di abbandonare Israele a se stesso. Di certo il rapporto tra Stati Uniti e Israele ha subito un duro colpo e di questo sono coscienti anche gli israeliani stessi. Pensiamo alla visita a Washington di Benny Gantz: non è stato un viaggio di cortesia ma la “missione” di un uomo che costituisce di fatto l’anello di congiunzione tra esercito, servizi segreti e politica, e che si sta candidando come autorevole alternativa a Netanyahu. Gantz però ha voluto anche recuperare consenso tra un’opinione americana fortemente contraria a quella che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Gantz ha voluto affermare che Israele non è Netanyahu e che i rapporti tra Tel Aviv e Washington devono continuare ad essere saldi sia per la stabilità di Israele, che per tutelare gli interessi USA in Medio Oriente. Non è detto che la Casa Bianca resterà ancora a lungo a guardare quello che accade a Gaza limitandosi, come fatto finora, agli appelli.

Veniamo all’Egitto. Israele sta spingendo i profughi palestinesi verso il Sinai. Ma cosa farà Il Cairo?

Per Il Cairo l’arrivo di oltre un milione di palestinesi sarebbe un problema innanzitutto di tipo umanitario: l’Egitto dovrebbe assumersi l’onere di gestire la crisi, ma stiamo parlando di un Paese in profondissima difficoltà economica e sociale. Insomma, quello che potrà accadere a Rafah rappresenterà un termometro per la tenuta dello stesso sistema egiziano.

E quanto è realistico che, dopo un attacco a Rafah, Hamas sarà sconfitta?

Anche in Israele tutti sanno che questa guerra non definirà la fine o meno di Hamas. Al di là dell’eventuale annientamento dell’ala militare, infatti, l’organizzazione sopravviverà perché i suoi leader sono ben al sicuro in Qatar e Turchia. Questi uomini avranno tempo e modo per riorganizzarsi in futuro. Insomma, se l’obiettivo numero uno di Israele è la distruzione di Hamas tale scopo è semplicemente irraggiungibile. Se invece Tel Aviv vuole limitarsi a danneggiare seriamente l’organizzazione palestinese sicuramente il colpo inferto è stato molto duro.

Secondo molti analisti quella in corso è un’operazione di pulizia etnica e l’attacco a Rafah ne costituirà l’epilogo. Lei è d’accordo?

Se Israele interverrà nella città di Rafah, dove oggi vivono 1,4 milioni di palestinesi, la conseguenza sarà una loro espulsione verso sud, cioè verso l’Egitto, senza nessuna possibilità di tornare a Gaza. Quindi sì, chi nei Paesi arabi parla del rischio di pulizia etnica sta enunciando un pericolo effettivo e concreto. Ricordiamo inoltre che la stessa Corte Internazionale di Giustizia ha confermato la plausibilità del rischio di genocidio a Gaza. Insomma, la situazione è oggettivamente complessa e i palestinesi sono di fatto allo stremo delle forze.

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Fonte : Fanpage