10 mila euro per morire: così la Svizzera concede agli italiani depressi il suicidio assistito

“Qualcuno di voi ha provato a fare richiesta per il suicidio assistito per problemi psichici? Da anni soffro di depressione, nonostante le cure mediche non ne posso più, una sofferenza psicologica devastante. Ho 43 anni”. “Anche io nella tua stessa situazione, ho 42 anni e mi curo dal 1996”. Nel gruppo Facebook di Exit Italia, associazione italiana per la promozione del diritto all’eutanasia, in tanti si informano sulla possibilità di ottenere la “luce verde” – ovvero il consenso da parte delle cliniche svizzere, dove il suicidio assistito è legale e concesso ai cittadini stranieri – anche in assenza di patologie definite irreversibili, terminali, e che causano gravi sofferenze fisiche.

Ci si confronta, si condividono esperienze, si cercano risposte. Del resto gli esempi tutti italiani da prendere a modello non mancano, a partire da Lucio Magri – giornalista, fondatore del Manifesto – che nel 2011 ha scelto di morire col suicidio assistito, a 79 anni, in una struttura elvetica per sfuggire a una forte depressione causata dalla scomparsa della moglie. Stessa scelta di Marta, 55enne di Torino con depressione maggiore che a ottobre 2023, nove mesi dopo la morte del figlio adolescente, è andata a Basilea senza avvisare né il marito né la sorella: hanno direttamente ricevuto a casa l’urna con le ceneri e il certificato di morte. E ancora Alessandra Giordano, 46enne di Paternò, morta nel 2019 nella stessa clinica di Dj Fabo: anche lei depressa se n’è andata all’insaputa dei familiari. Storie che hanno scosso l’opinione pubblica e fatto luce su una questione etica importante. 

“Non è così facile come viene descritto dalle notizie su internet” risponde nel gruppo qualcuno che si è informato: “Tramite uno specialista, in questo caso uno psichiatra che ti segue, devi produrre una documentazione completa, ma non è semplice”.

“A causa del numero di domande non abbiamo disponibilità fino a maggio” rispondono da Pegasos.

Le cartelle cliniche sono fondamentali, insieme alla quota di iscrizione all’associazione svizzera a cui ci si vuole affidare per la richiesta di morte assistita in una delle loro cliniche, tra Basilea, Zurigo e Lugano. Dignitas è la più cara, con una tassa di iscrizione di 220 franchi svizzeri (222 euro), più una quota annua libera ma a partire da un minimo di 80 franchi (81 euro), mentre per Pegasos bastano poco più di cento euro. Senza associarsi non solo non si può avviare nessun iter, ma non si avranno neanche consulenze né informazioni sul proprio caso specifico. La risposta automatica di Pegasos (in italiano) alla mail in cui chiediamo aiuto rimanda al sito: “Per rispondere a qualsiasi domanda lei possa avere, la prego di consultare la sezione FAQ sul sito web di Pegasos”. E conclude: “Tieni presente che a causa della domanda più elevata del solito, al momento non abbiamo disponibilità fino a maggio”.

10mila euro per morire

Una volta iscritti si può procedere. Oltre alla documentazione medica serve il certificato di nascita, quello di residenza, di matrimonio se si è sposati, il passaporto e una lettera con le motivazioni per cui si richiede una morte assistita volontaria (Mav). Una commissione formata da medici valuta il caso in tempi rapidi e decide se assegnare l’ambita luce verde. “Ci vogliono circa 20 giorni per la valutazione” ci spiega al telefono Enrico Coveri, presidente di Exit Italia, poi sarà il richiedente a stabilire il giorno della sua morte in Svizzera, dopo qualche mese o settimana, “a seconda dell’urgenza” si legge sempre sul sito. Per fare tutto, dalla valutazione e i consulti medici fino ai servizi funerari e alle spese amministrative post decesso, ci vogliono poco più di 10mila euro.  

costi mav

È lecito farlo quando la diagnosi è ‘solo’ di depressione maggiore? In questo caso i requisiti per accedere all’eutanasia vacillano – non essendoci, ad esempio, la condizione di grave sofferenza fisica né la necessità di trattamenti di sostegno vitale o malattie terminali – ma a traballare è soprattutto il criterio che fa riferimento alla capacità di intendere e volere, che in una persona depressa potrebbe essere offuscata o condizionata dall’umore fortemente negativo, episodico o costante.

Il dibattito è acceso e non solo sui social, dove c’è anche chi racconta di aver scritto a un’associazione australiana per ottenere il Nembutal – potente barbiturico usato per il suicidio assistito – lamentando di non averlo ricevuto perché “non lo spediscono”.  

Le storie di chi chiede di morire (e chi lo ha fatto)

Matteo (nome di fantasia) è un quarantenne in cura dal ’98 per depressione. Lui sul gruppo Facebook è tra i più attivi: “Mi è capitato di parlare con persone con disturbi psichici che stavano facendo richiesta alla Dignitas – racconta a Today.it – A tante la richiesta è stata respinta, per un paio invece è stata accettata”. La sua è una storia di sofferenza profonda che parte dall’infanzia: “Soffro di fobie da quando ero bambino. Sono stato vittima di bullismo fin dalle elementari, non interagivo con nessuno dei miei compagni. La situazione è peggiorata alle medie e alle superiori, arrivando anche ad aggressioni fisiche. A 18 anni ho lasciato la scuola per i gravi episodi di bullismo che subivo e da lì entrai in psicoterapia. Non ero in grado di fare nulla, non ero autonomo, non ho mai avuto un amico e in più a mandarmi fortemente in crisi furono problemi legati sia all’identità che all’orientamento sessuale. La psicoterapia mi aiutò a riprendere gli studi, a 21 anni frequentai le serali per evitare i coetanei e mi diplomai come odontotecnico. Né la psicoterapia né la terapia farmacologica – cambiata più volte – però, sono mai riuscite a migliorare il mio tono dell’umore. Ho 43 anni e praticamente da allora vivo in una situazione di continua sofferenza psicologica, con un pensiero costante di morte – spiega ancora – Mi è stata fatta una diagnosi di depressione maggiore, soffro di rupofobia (paura dello sporco) e altre fobie. Dal 2000 ho sempre lavorato, anche se con molta fatica, part-time. I miei sonni sono costellati da incubi terribili, ogni sera spero di non svegliarmi il giorno dopo. La situazione per me è insostenibile da molti anni e se sono qui è perché non ho mai avuto il coraggio di suicidarmi, ma se penso che davanti posso avere ancora altri 40 anni di vita non ce la faccio. Non dico subito, perché non vorrei dare un dolore così forte a mia mamma, che ha 73 anni, ma penso a un’altra decina d’anni e poi basta. Vorrei poter accedere a una morte dignitosa e lasciarmi alle spalle questa vita che per me è stata un vero inferno”.

Matteo non si è ancora mai messo in contatto con nessuna delle associazioni svizzere, ma segue i casi di altri iscritti, come Sara, che un anno fa ha accompagnato a Basilea sua madre e spiega come fare: “Rispondono ma chiedono in primis di raccontare la propria storia di depressione. Mia madre inviò una mail e hanno risposto dopo tre giorni. Lei non usciva più di casa da 4 anni. Depressione maggiore, attacchi di panico e ansia unita a fobie sociali. Noi familiari l’abbiamo accompagnata, ha finito lì la sua vita”. 

Scrollando i vari post c’è anche Valeria, una 42enne affetta da disturbo ossessivo compulsivo, che vorrebbe si usasse il suo vero nome ma “al lavoro se vengono a sapere che prendo psicofarmaci è un problema” ci spiega al telefono. Lei lo scorso ottobre scriveva di pensare al suicidio assistito: “Sono trent’anni che soffro di questo disturbo e sono stanca. A ottobre ho toccato il fondo e ci ho pensato seriamente. Ero disperata – racconta a Today.it – Non ce la facevo più a sopportare il dolore psicologico. So che non è facile da capire, ma è pari a quello fisico. Ho scritto a Marco Cappato. Gli ho mandato una mail, mi ha risposto, è stato molto garbato. Mi ha detto che magari non avevo trovato il professionista giusto e mi ha mandato lui dei contatti”.

Marco Cappato: “Sull’eutanasia legale non ci fermeremo”

La posizione dell’Associazione Luca Coscioni – che da anni si batte per una legge sull’eutanasia in Italia anche attraverso la disobbedienza civile, accompagnando persone a farlo in Svizzera, come Dj Fabo – in merito alla questione ci va con i piedi di piombo, come ci spiega lo stesso Cappato: “La proposta di legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale, depositata dall’Associazione Luca Coscioni nel 2013, non includeva la possibilità di accesso all’eutanasia per i pazienti psichiatrici, perché riteniamo che un dibattito così importante e delicato dovesse essere sviscerato in occasione del dibattito parlamentare, coinvolgendo esperti, anche per aggiornare lo stato dell’arte della ricerca scientifica”.

“No all’eutanasia se la persona non è lucida o se la patologia non è irreversibile” spiega a Today.it Marco Cappato

“Personalmente – spiega ancora Cappato – ritengo che non debba essere possibile accedere all’eutanasia o all’aiuto alla morte volontaria se la persona non è lucida e consapevole oppure se la patologia non è irreversibile, ma curabile. Se invece la persona è pienamente in possesso delle proprie facoltà di intendere e di volere, sulla base di attenta e scrupolosa verifica, e se la patologia è irreversibile, credo possa essere ammessa all’aiuto alla morte volontaria. Naturalmente, il concetto di ‘curabile’ e ‘irreversibile’ può cambiare nel tempo, sulla base dell’evoluzione del progresso medico-scientifico”.

Come arriva la luce verde dalla Svizzera

In Svizzera a decidere chi ha diritto all’eutanasia è una commissione sanitaria: psichiatri che verificano se la depressione è curabile o irreversibile, e quanto questa sia invalidante per il paziente che fa richiesta di suicidio assistito. “I criteri sono più ristretti rispetto alla malattia fisica e i tempi di valutazione a volte più lunghi” ci spiega il dottor Mario Riccio dell’Associazione Coscioni, che conferma: “In Svizzera, così come in altri Paesi, vengono accettati pazienti con depressione. La procedura è aperta anche per loro. Non tutte le associazioni però accettano cittadini stranieri, solo un paio”. Riccio, l’anestesista che staccò la spina a Piergiorgio Welby, ci tiene a precisare: “A volte confondiamo la sofferenza psichica lieve con quella che è la grave depressione, che è una malattia assoluta e sconvolgente. Ci sono persone che non rispondono ai farmaci, succede che anche la terapia più aggressiva non riesce a ridare nemmeno un minimo di equilibrio, oppure ci sono terapie il cui prezzo da pagare è non essere più se stessi. Queste associazioni danno la luce verde perché riconoscono nella malattia psichica una sofferenza esistenziale, che è considerata di pari grado con la sofferenza fisica”.

L’iter per certi versi è semplice: “Bisogna superare il vaglio di una commissione medica che accerta le condizioni del richiedente. Si manda la documentazione e una lettera in cui si racconta la propria storia. Vogliono una sorta di biografia personale. Se ritengono opportuno richiedono una visita con un loro specialista, in questo caso uno psichiatra, per un contatto diretto, altrimenti, se la certificazione medica è sufficiente, possono dare la luce verde anche a distanza. Questo succede soprattutto se c’è comorbidità con altre patologie fisiche. I tempi non superano quasi mai un paio di mesi”.

“Quasi metà di chi ottiene l’autorizzazione all’eutanasia poi non si presenta”

Sul dopo Riccio fa una considerazione importante: “Quasi il 40% di persone che fa richiesta e ottiene la luce verde poi non fissa una data e non si presenta più. Questo significa che dare al paziente questa possibilità lo tranquillizza e magari alla fine fa altre scelte”.

Capaci di intendere e volere?

La valutazione non può prescindere dalla capacità di intendere e volere che il paziente deve necessariamente avere, e questo è senza alcun dubbio il punto più ambiguo della questione. Una persona depressa è pienamente consapevole e lucida nel fare una scelta simile? Del resto il pensiero suicidario può essere ricorrente nei depressi gravi. A rispondere è lo psichiatra Diego Silvestri. “Esiste una condizione persistente di sofferenza esistenziale legata alla lucida e pervasiva consapevolezza della propria esistenza di malato” spiega a Today.it. “Se questa psychache si impossessa della persona con lunga storia di malattia mentale, di fronte all’assenza di ogni prospettiva alternativa fattibile, il malato diviene di fatto così convinto coscientemente di porre fine alla propria esistenza che ogni azione contraria che i curanti possono mettere in atto potrebbe configurarsi una limitazione della sua libertà”.

Dall’Italia né l’Associazione Coscioni né Exit Italia sostengono malati psichiatrici a intraprendere questa strada all’estero, tantomeno fanno da tramite con le associazioni svizzere. È un percorso che intraprendono da soli, spesso anche all’insaputa dei familiari e con l’ostracismo degli psichiatri italiani, che difficilmente forniscono la documentazione necessaria a chi vuole richiedere la luce verde in Svizzera, come qualcuno fa notare sempre sui social.

A confermarlo è ancora Silvestri: “C’è un’effettiva difficoltà nel reperire psichiatri italiani che certificano quello che chiede un’associazione svizzera. Questo dipende dalla normativa italiana che fa rischiare i professionisti che agevolano un atto non completamente impunibile”. Ecco allora che la palla passa agli psichiatri svizzeri, gli ultimi a valutare e a farlo dove – come abbiamo visto – è legale. L’ultima parola per i ‘nostri’ pazienti è la loro.

Fonte : Today