Con un saio al posto del mantello, Padre Paolo Benanti, professore della Pontificia Università Gregoriana, è il supereroe dell’IA italiana. La sua missione? Salvare il giornalismo – e i suoi lettori – dall’avvento dell’intelligenza artificiale capace di scrivere come un essere umano.
Benanti, esperto di etica delle tecnologie e unico italiano nel Comitato sull’IA dalle Nazioni Unite, ha ricevuto l’incarico dal sottosegretario all’editoria Brachini, che a gennaio scorso lo ha nominato – al posto di Giuliano Amato – alla guida della Commissione che studia l’impatto dell’intelligenza artificiale sull’informazione. Gli effetti possono essere devastanti. C’è il rischio, innanzitutto, che in futuro i lettori non siano più in grado di distinguere una fonte affidabile, frutto del lavoro umano, da ciò che produce per esempio uno strumento basato su algoritmi come ChatGpt.
Padre Benanti, il ruolo del giornalista è a rischio? Un giorno saranno le macchine a scrivere le notizie?
“Il tema vero è che ci possono essere degli intermediari che possono fare delle piattaforme di pseudo-news. Queste persone sfruttano l’IA per catturare le notizie più interessanti con pochissimi euro al giorno, le fanno riscrivere alla macchina e le ripubblicano solo per guadagnare con la pubblicità, usando titoli clickbait. È questo che uccide il comparto industriale del giornalismo e a cascata soffoca i giornalisti che non sono più riconosciuti come professionisti”.
In questo caso come si può difendere il lavoro umano?
“Con una marcatura temporale del testo scritto da un giornalista e pubblicato da un editore. Parliamo di un codice associato a un articolo, per esempio, che certifica l’integrità del testo originale. Se quel testo viene modificato, anche solo di una virgola, perde la marcatura iniziale. E anche se ne acquistasse una nuova, l’orario di pubblicazione contenuto nella marcatura ci dice che un testo è apparso online prima di un altro. La marcatura è come il dorsetto digitale di un giornale, qualcosa che tiene insieme il suo lavoro editoriale”.
Possiamo dire che la marcatura temporale certifica anche la qualità del lavoro giornalistico?
“Secondo me sì. È una qualità legata alla professionalità. La marcatura indica una professionalità in esercizio. E quindi la qualità giornalistica. Che non significa avere idee omologate. Vuol dire semplicemente che il testo contrassegnato fa parte di un processo che conosciamo come ‘giornalismo’”.
Cosa fa (e cos’è) la Commissione italiana che studia l’impatto dell’IA sull’informazione
E proprio il giornalismo, e il mondo dell’editoria, è ciò che la Commissione IA per l’informazione, che lei guida, intende proteggere.
“È così, ma questo vuol dire che vogliamo proteggere anche i lettori. Perché devono sapere chi c’è dietro un determinato testo. Nel momento in cui un giornalista scrive un pezzo e lo firma, quel pezzo comporta tutta una serie di implicazioni. Il giornalista ha una catena di responsabilità e mette pubblicamente la propria faccia su quel contenuto, così come fa l’editore che lo pubblica. Marcare questo lavoro editoriale è un primo guard rail. Rendiamo cioè visibile che è un prodotto realizzato con professionalità. Quando, tre secondi dopo, qualcuno prende quel testo e ne modifica una parte, innanzitutto quel testo non è più uguale all’originale. E poi, inoltre, potrebbe essere disinformazione”.
Quanto costa questa marcatura temporale?
“Spesso si tratta di un’operazione gratuita oppure che ha un costo irrisorio per gli editori”.
La tecnologia per marcare un articolo esiste già?
“Sì, per esempio l’Ansa [la più nota agenzia di informazione italiana, nda] la usa sul suo sito ufficiale”.
Ed è visibile ai lettori?
“Sì, c’è una scritta che la identifica vicino o alla fine degli articoli”.
Certo è difficile che un lettore se ne accorga, se è concentrato sulla notizia.
“È logico che andrà fatta una campagna di informazione. Le persone andranno allenate a riconoscere questa marcatura”.
È uno dei suggerimenti che ha dato al governo la Commissione?
“Dico solo che è logico”.
A questo punto viene da pensare che bisognerà arrivare a uno standard. A un simbolo, o un avviso, identico per tutte le testate.
“Certo, è questo lo spunto che abbiamo dato. Qualcosa di simile avviene con lo standard proposto dalla coalizione C2PA per marcare i contenuti multimediali prodotti o pubblicati dai media, per fugare ogni dubbio sulla loro autenticità. In quel caso, se non sbaglio, appare un simbolo sulla barra degli indirizzi, accanto a ‘https:'”.
Lei guida la Commissione IA per l’informazione da due mesi. Che bilancio può fare del lavoro effettuato finora?
“Lo dico senza giri di parole: siamo un gruppo forte che non le manda a dire, che ascolta, che interroga e che poi riflette insieme su cosa significano queste trasformazioni, anche rispetto ai temi verticali di cui ci occupiamo. Non siamo tutti giornalisti, non siamo tutti ingegneri, non siamo tutti filosofi, però insieme ragioniamo mettendo tutte le varie competenze sul tavolo”.
Quali sono le criticità più importanti da cui siete partiti?
“La prima riguarda la professione del giornalista. Se vogliamo usare le parole del Washington Post, il giornalismo serve a mantenere vivo il tessuto democratico: “Democracy Dies in Darkness”. Quindi è un mestiere che ha anche una vocazione, una vocazione di servizio civile per un sistema democratico. Questa è una funzione importante che si lega a un’altra criticità: il giornalista esiste solo se c’è un comparto industriale che gli permette di sopravvivere. Allora, tanto la prima figura che qualcuno potrebbe pensare di rimpiazzare con degli algoritmi, quanto la seconda funzione che potrebbe essere danneggiata da competizioni non esattamente eque di mercato, sono due grandi complessità. La terza criticità è l’esistenza delle grandi piattaforme che non sono equiparabili ad editori, che però in alcuni casi fanno cose praticamente identiche e che non rispondono alla stessa catena di responsabilità. E infine la quarta: i grandi produttori di intelligenza artificiale hanno ormai sistemi che lavorano testi o immagini, elementi chiave per un settore come l’editoria”.
In questo periodo lei avrà sicuramente avuto modo di confrontarsi con numerosi professionisti del settore.
“La Commissione ha ascoltato tutte le persone più importanti che si stanno muovendo nell’ambito dell’editoria”.
Ma gli editori che ha incontrato sono affascinati dall’IA? Pensano che possa ridurre i loro costi?
“Gli editori sono un conglomerato molto ampio. Questo è sicuramente un tema che affascina. Perché gli algoritmi potrebbero anche contribuire ad aumentare la qualità del giornalismo stesso. Perché se tutta una parte di routine la fa la macchina, potremmo avere figure che si possono dedicare molto di più, per esempio, a inchieste, fact-checking o altre attività di valore aggiunto. È evidente che il digitale, da sempre, spinge sui meccanismi produttivi. Si pensi a quando siamo passati dalle rotative in piombo, dove c’era il re-fuso, cioè il carattere che si fondeva di nuovo perché c’era un errore, al digitale, dove semplicemente cambiando un carattere, cambia tutta la pagina sul sito. Quindi è evidente che la tecnologia tocca la stampa da Gutenberg in poi, cambiandola radicalmente, rendendola possibile, fluida e apportando una serie di trasformazioni. Questa novità dell’intelligenza artificiale interessa tutto il settore, proprio come il passaggio dalla penna alla macchina da scrivere. Gli editori però sono interessati anche a svolgere il loro compito, che è un compito di cura, di qualità e di professionalità. Dalle audizioni che abbiamo fatto è emerso anche questo: al di là delle sfide commerciali, perché è chiaro che stanno affrontando una sfida competitiva, emerge anche il loro desiderio di fare un lavoro di qualità. Quando c’è una testata, quella testata ha un’identità e una riconoscibilità. E questo è positivo”.
Gli editori oggi hanno un altro problema enorme: proteggere i loro contenuti da coloro che se ne appropriano indebitamente per addestrare le loro IA.
“Sul diritto d’autore abbiamo in Commissione degli esperti del mondo giuridico notevoli. E un primo passo del nostro lavoro è stato proprio quello di evidenziare che esiste già tutta una giurisprudenza sul diritto d’autore. Il tema è che spesso c’è una sproporzione enorme tra il povero autore o editore e un colosso immenso che ha collezionato chissà quanti testi e non vuole dirti: “Sì, uso il tuo””.
Come è possibile, quindi, rendere efficace la tutela del diritto d’autore in questo contesto?
“Il problema è rendere applicabile la legge esistente, perché al momento il singolo autore deve andare ogni volta a fare causa a un colosso per dimostrare se il suo testo è stato utilizzato, una sfida di Davide contro Golia. E dunque abbiamo proposto la creazione di un registro dove questi grandi sistemi di AI sono obbligati a tenere traccia di quali testi sono stati utilizzati per il loro addestramento”.
Dunque c’è una sorta di inversione dell’onere della prova.
“Esatto. Non devo essere io a dimostrare che hai usato il mio testo, ma tu devi dirmi su quali testi hai lavorato. In questo modo posso avere il diritto all’equo compenso, che è già previsto dalla legge, o al lock-out se preferisco negare l’utilizzo”.
La Commissione che lei guida ha consegnato un documento sul lavoro effettuato finora alla premier Meloni, in vista del disegno di legge sull’IA che il governo dovrebbe varare a breve. Il vostro lavoro è terminato?
“No, è finita solo la prima fase. Andremo avanti”.
Lei si muove da una parte all’altra del mondo per contribuire ai guard rail dell’intelligenza artificiale ma anche per spiegare opportunità e rischi di questa tecnologia. Qual è il suo prossimo appuntamento in Italia?
“Il 26 marzo prossimo, a Milano, racconterò il rapporto fra intelligenza artificiale e capitale umano in un seminario a porte chiuse organizzato da Digit’Ed e 24 ore Business School. Ci saranno i direttori del personale delle più importanti aziende italiane”.
Fonte : Repubblica