La prima cosa a cui ho pensato vedendo l’ormai famosa immagine di Kate Middleton modificata con Photoshop è che non poteva essere vero. Cioè, com’è possibile che un’organizzazione come la Casa Reale inglese pubblichi un’immagine così evidentemente ritoccata? Doveva esserci un’altra spiegazione.
Ora, al netto delle varie interpretazioni, quello che ho provato io, e tanti utenti come me, è indice di una storia un po’ più ampia, che riguarda il modo in cui ci approcciamo alla realtà negli spazi digitali.
Quello che è successo è ormai noto. Si parla da qualche tempo dei problemi di salute della principessa del Galles, tra voci fuori controllo e foto rubate. Per ribaltare questa narrazione, qualche giorno fa sul profilo ufficiale degli eredi al trono William e Kate compare un’immagine di lei sorridente, insieme ai figli. Una foto che desta qualche sospetto, per una serie di imperfezioni: a notarle sono prima gli utenti comuni, poi anche le agenzie di stampa, che ritirano l’immagine.
Secondo un giornalista americano, Charlie Warzel, la storia di Kate Middleton racconta la fine della realtà condivisa. La tesi è piuttosto semplice: una crisi di fiducia nelle istituzioni ci ha portato a dubitare sempre più di quello che vediamo, soprattutto delle narrazioni ufficiali. In questo contesto, la tecnologia, sia quella relativamente vecchia come Photoshop sia quella nuova come l’AI, fa da amplificatore, da moltiplicatore: niente è vero, ma tutto è possibile.
Alla base, c’è una sfiducia, un processo di sgretolamento della realtà come la conosciamo.
“Il cambiamento più grande – scrive Warzel – è culturale. Lo scandalo della foto reale è semplicemente un microcosmo del momento attuale, in cui la fiducia nelle istituzioni governative e nelle organizzazioni di controllo come la stampa mainstream è bassa. Questa sensazione si sta costruendo da tempo ed è stata esacerbata dalle pericolose bugie politiche dell’era Trump”.
Un cambiamento culturale, favorito dalla tecnologia
È come se due storie, quella ufficiale rappresentata dalla foto e quella non ufficiale di chi ha cercato indizi che la foto fosse falsa, fossero venute a confronto. Da una parte c’è chi crede che ci sia molto di più dietro la malattia di Kate Middleton e che la Casa Reale inglese stia nascondendo qualcosa; dall’altra, un’istituzione che punta a rassicurare il mondo sullo stato di salute della moglie dell’erede al trono.
Il tutto in un contesto caratterizzato da due punti di partenza fondamentali. Il primo: le istituzioni hanno sì un potere in termini di possibilità di raggiungere molti utenti, anche sui social network. Ma non hanno più il monopolio delle narrazioni. Che, sulle piattaforme, circolano in modo autonomo, sulle onde degli algoritmi di raccomandazione. Sistemi che, tra l’altro, tendono a privilegiare tutto ciò che è alternativo: perché genera discussione, engagement, spinge le persone a interessarsi, a intervenire. E che costruiscono mondi personalizzati, su misura di utente: se mi interessa, quella determinata visione diventa presto tutto quello che vedo, la mia intera dieta informativa.
L’altro punto di partenza ha a che fare con le tecnologie di manipolazione. Sì, vero, Photoshop c’è da un po’. Ma l’arrivo dell’intelligenza artificiale generativa ha democratizzato le possibilità di intervento e creazione di nuove immagini: ogni storia, ogni narrazione, può avere a supporto una supposta prova testimoniale. Il che vuol dire, attenzione, non solo che chiunque può creare immagini potenzialmente credibili. Ma anche che gli utenti si abituano a considerare ogni foto come presumibilmente falsa, fino a prova contraria. E quindi analizzano, verificano, soprattutto quando alla base c’è un tema caldo, sentito, con una narrazione presente.
Questione di identità
“Non è mai stato così facile – scrive ancora Warzel – raccogliere prove a sostegno di una particolare visione del mondo e costruire un mondo fittizio attorno ai pregiudizi cognitivi su qualsiasi questione politica o di cultura pop. È in questo contesto che i nuovi strumenti tecnologici diventano qualcosa di più che semplici offuscatori della realtà: sono agenti del caos”.
Un caos in cui tutto diventa intrattenimento. Ryan Broderick, che con la sua newsletter Garbage Day è uno dei più attenti osservatori della cultura digitale, scrive che “leggiamo e condividiamo teorie del complotto sulla cultura pop perché è divertente, perché è stuzzicante”.
E, aggiungo io, per costruire la nostra identità online, per sentirci parte di una comunità, anche se costruita intorno a qualcosa di apparentemente piccolo, insignificante. Migliaia di microcosmi, intorno a nicchie di interesse a volte grandi, a volte minuscole: mondi semi-individuali che, in effetti, fanno fatica a costruire una realtà condivisa.
Fonte : Today