La “forza tranquilla” di Elly Schlein

Nessun “effetto Sardegna” lungo l’Appennino. In Abruzzo il meloniano Marco Marsilio è il primo presidente della storia della Regione a centrare la rielezione, staccando di ben sette punti il candidato del cosiddetto “campo largo”, Luciano D’Amico. Niente da fare per lo stimato ex rettore dell’Università di Teramo, probabilmente il miglior candidato possibile in un contesto già compromesso. Il risultato sorprende fino a un certo punto, perché l’ultimo sondaggio dell’Istituto Noto, datato poco prima delle elezioni sarde, prevedeva esattamente questo scenario. “Il campo largo non sarà il futuro del Paese” ha detto Marsilio accorso al suo comitato elettorale per festeggiare la vittoria, ma al netto del suo entusiasmo per aver mantenuto la poltrona con la metà degli abruzzesi rimasti a casa, la sua lettura è ovviamente faziosa e non tiene conto di un particolare non da poco: l’Italia non è l’Abruzzo.

In un’elezione in cui le liste collegate ai presidenti hanno ottenuto risultati a dir poco sorprendenti, nel centrodestra, ancora una volta, domina Giorgia Meloni, che sul voto regionale perde quasi tre punti rispetto alle politiche ma può gioire per i nuovi equilibri della sua coalizione, che si confermano anche a questa tornata: poco più di un punto salva infatti il suo scomodo vicepremier, Matteo Salvini, da una sommossa interna che sembra solo rinviata.

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Mentre il leader del Carroccio celebrava l’affermazione del partito di estrema destra del portoghese André Ventura –  uno che sostiene che vanno asportate le ovaie alle donne che abortiscono – la sua Lega, in Abruzzo, crollava dal 26 per cento al 7,5 per cento e veniva quasi doppiata da Forza Italia, un partito che in molti davano per finito dopo la scomparsa del suo fondatore. Per gli amanti della “scaramanzia politica”, poco dopo la dichiarazione in cui il leader leghista festeggiava l’avanzata del suo “gemello” populista, i socialisti di Pedro Nuno Santos smentivano gli exit poll e nel conteggio delle schede pareggiavano praticamente il conto con l’alleanza Democratica di centrodestra guidata da Luís Montenegro. 

Perché il “campo largo” è la strada obbligata del centrosinistra

Sull’altro fronte, si riflette su cosa salvare e su come proseguire dopo l’ennesima sconfitta. Alcuni fatti sono abbastanza evidenti: il primo è che con Forza Italia così in salute, non esiste nessuna possibilità di espansione per un “terzo polo”, con buona pace dei litigiosi Matteo Renzi e Carlo Calenda, che alle prossime elezioni europee proveranno a scipparsi fino all’ultimo voto per centrare il quorum del 4 per cento: non proprio il grande ritorno della Democrazia Cristiana, insomma. L’unica idea ragionevole che i centristi dovrebbero perseguire è quella di federarsi in un cartello moderato all’interno del “campo largo”, derogando la sfida tra i due “ego-leader” e soprattutto turandosi il naso per la presenza del Movimento 5 Stelle e di Giuseppe Conte. I grillini, dal canto loro, registrano un prevedibile crollo rispetto alle precedenti amministrative in cui ancora giovarono della rendita dello straordinario risultato ottenuto l’anno prima alle politiche. Anche loro devono decidere cosa vogliono fare da grandi: con questi numeri, in linea con la previsione di una media nazionale che potrebbe oscillare intorno al 15 per cento, correre da soli come ai bei tempi sarebbe un suicidio annunciato.

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Insomma, in termini teorici, il “campo largo allargato” uscito sconfitto dalle elezioni in Abruzzo è l’unico schieramento che può rappresentare una maggioranza alternativa alla “minoranza organizzata” di destra guidata da Giorgia Meloni. In fondo è sempre stato così, sin dai tempi di Romano Prodi, che federando ex comunisti, ex democristiani e “cespugli” vari, riusciva a battere Silvio Berlusconi e un centrodestra che all’epoca raccoglieva molti più consensi di quello attuale. La differenza tra i due schieramenti, ieri come oggi, sta nella capacità di mantenere il punto (o il potere, dipende dal punto di vista) superando le divisioni: non è mistero che tra Meloni, Salvini e Tajani i litigi, le faide sotterranee e i distinguo siano all’ordine del giorno, ma poi i tre leader salgono tutti insieme su uno stesso palco a sostenere candidati perdenti come Truzzu o vincenti come Marsilio; questa capacità, sul fronte opposto, è quasi sempre venuta meno, se non in brevi frangenti. Eppure i numeri dicono che l’incapacità di fare sintesi dei leader e dei partiti di centrosinistra non rispecchia i desideri dei loro elettori, che da sempre vivono come una specie di violenza quell’eterna divisione che fa vincere le destre.

Elly Schlein è vessata da tutti, ma è l’unica che ha capito cosa fare

“La force tranquille” era lo slogan con cui François Mitterrand vinse le elezioni presidenziali francesi del 10 maggio 1981. Facendo le dovute proporzioni, anche la leader del Partito Democratico, Elly Schlein, porta in sé una sua forza tranquilla. Giorno dopo giorno, la giovane leader sta smentendo i catastrofismi di chi ipotizzava un suo veloce fallimento e un improbabile sorpasso da parte del Movimento 5 Stelle. Il Pd guadagna consensi anche in Abruzzo, dove la coalizione perde, quasi doppiando l’11 per cento del 2019 e affermandosi come secondo partito al 20 per cento. Schlein, a differenza dei suoi blasonati predecessori che hanno lasciato solo macerie, ha l’obiettivo dichiarato di unire il fronte e lavora in apparente silenzio per trovare una quadra in tutta Italia come in Abruzzo. Un obiettivo sicuramente non semplice da centrare, ma al momento i risultati le danno la forza di proseguire e di tenere a bada gli attempati generali senza esercito del suo partito con le loro correnti e correntine, sempre più irrilevanti. Vessata da avversari, alleati, commentatori un po’ supponenti e persino dalla conduttrice di un noto programma di approfondimento politico che si scandalizza per una parola come “esternalizzazione” (che dovrebbe essere il pane quotidiano di chi la segue, altrimenti il problema è il programma, non l’ospite…), Shlein va dritta per la sua strada e mattoncino dopo mattoncino cerca di dare una forma al suo progetto, mediando per quanto possibile i capricci dei suoi “viziati” alleati. Il suo Pd non è più il partito del “ma anche”, quello che tanto male ha fatto al centrosinistra e all’Italia, ma qualcosa che può piacere o non piacere, come è giusto che sia quando ci si spende per rappresentare, appunto, una parte. “Abbiamo riaperto la partita”, ha dichiarato commentando la sconfitta di Luciano D’Amico: solo il tempo dirà se la sua è un’illusione o qualcosa di concreto, di sicuro è l’unica che nel suo campo ha capito cosa bisogna fare per provare a vincerla.

Fonte : Today