La “lezione” a un senzatetto preso a calci e pugni sotto i miei occhi

“Non hai nemmeno le palle di girarti”. Il mio pomeriggio di ordinaria violenza comincia con un apparente diverbio a cui non presto attenzione. Sono a Roma e sto passeggiando nel mio quartiere. C’è un sole inusuale per un pomeriggio di febbraio e decido di sedermi su una panchina. Guardo le notifiche sul telefono, accendo una sigaretta che (mi ripeto) non dovrei fumare. Il mondo esterno è apparentemente lontano. Eppure a due passi da dove sto oziando si consuma un orrore. Dopo la prima minaccia le urla si fanno più concitate e sento distintamente anche quelle dei passanti. Da lontano vedo due ragazzi che stanno alzando le mani. Penso a una rissa tra adolescenti. Decido di avvicinarmi per capire meglio cosa sta succedendo.  

In due contro uno in pieno pomeriggio 

A pochi metri la scena diventa più chiara. Non sto assistendo a una rissa, ma a un vero e proprio pestaggio. I due ragazzi sono alti, avranno pressapoco sui 20 anni. Hanno i capelli rasati e indossano t-shirt nere. Uno dei due sta prendendo letteralmente a calci un senzatetto per terra. L’uomo è stato atterrato dai pugni e ora sta subendo inerme i calci dei due. Una folla comincia, con cautela, ad accalcarsi davanti alla scena. Un anziano passa con il cane e si limita a dire: “Mi fate passare, posso non vedere tutto questo mentre passo?”. Qualcun altro aggiunge: “Non serve a niente, non è così che impara la lezione”.

Qualcuno, per fortuna, ha già chiamato la polizia. Mi avvicino ai due e chiedo chiarimenti: “Cosa sta succedendo? Perché state picchiando in due una persona inerme?”. La mia vicinanza e quella delle altre persone fanno capire ai due di non essere soli: tutti stanno guardando quello che sta succedendo. Smettono di infierire sull’uomo e si rivolgono a me parlando al plurale: “Bravi, giratevi tutti dall’altra parte, tutti bravi a guardare e non agire”.

Gli spiego che non mi sono girato, ma li sto osservando. Che non so cosa sia successo, ma che la strada non è un far west e che picchiare una persona è un reato penale. A quel punto mi chiedono dove abito e perché sono nel “loro quartiere”. Gli rispondo che il quartiere non è il loro, ma anche il mio e che vivo a poche centinaia di metri da lì. Mi domandano, a questo punto, se mi rendo conto del degrado in cui siamo immersi. Gli ribadisco che il cosiddetto “degrado” non è colpa di un homeless, semmai della mancanza di servizi, soldi e pulizia urbana e che i problemi non derivano certamente dalla presenza di un senza fissa dimora. Ok, la conversazione è stata piuttosto concitata e non sono convinto che il mio tono fosse proprio politicamente corretto, né che le parole usate siano state esattamente quelle. Il senso però sì.

A questo punto i due se ne vanno, la folla anche. Con l’uomo ferito per terra rimaniamo solo io e due ragazze adolescenti che gli porgono una bottiglietta d’acqua. Ha delle escoriazioni, e gli suggerisco che, oltre alla polizia, sia il caso di chiamare anche un’ambulanza. Ha sui 50 anni, ha preso colpi in testa e forse è necessario eseguire degli accertamenti. Mi chiede qualche moneta e mi assicura che sta bene. Carabinieri e ambulanza arrivano poco dopo. Decide di non querelare i suoi aggressori e di non andare in ospedale: non ha documenti, per tutti è un invisibile. E, da invisibile, si allontana da sanitari e forze dell’ordine. “Se lui non agisce noi non possiamo fare nulla” affermano rassegnati i militari. 

La nuova “lotta di classe” dei penultimi contro gli ultimi

Tornando a casa penso che prima di andare via i due giovani picchiatori si sono congedati con due frasi che mi hanno colpito. La prima: “Noi ci alziamo alle 6 per andare a lavorare”. La seconda: “Vieni a pulire il casino che hai fatto”. Per deformazione professionale ho provato, parlando con i passanti (e con la vittima) a ricostruire il “movente” dell’aggressione.

In breve: lui si era appostato a dormire con la sua brandina vicino a un negozio. Un giorno non ha più ritrovato il suo giaciglio e, almeno secondo la ricostruzione dei due picchiatori e di alcuni passanti, avrebbe “sporcato” l’area per protesta. L’idea del “decoro” diventa così prioritaria rispetto a quello che viene visto non più come un uomo, ma come un vero e proprio “rifiuto urbano” che può essere tranquillamente preso a calci. Del resto è di origine slava, non è nato certo nel “loro quartiere”. 

Mi accorgo che il razzismo evocato però è qualcosa di diverso da quello di primo Novecento. La retorica usata è economica, non antropologica. Nelle parole dei due c’è un universo di risorse limitate che vanno difese a ogni costo. Non contro chi ha di più, ma paradossalmente verso chi ha di meno.

Un mondo la cui gerarchia non può essere messa in discussione, se non ai danni di chi è più in basso nella piramide sociale. È la “pace terrificante” evocata da un grande cantautore italiano nei primi anni ’90. Lo stesso universo dove il problema non è più chi evade milioni di euro di tasse, ad esempio, ma il furbetto del reddito di cittadinanza.

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La nuova “lotta di classe” dei penultimi contro gli ultimi fomentata dagli apprendisti stregoni della destra (più o meno) estrema diventa così un’utile mistificazione ideologica. Serve ad assorbire (e indirizzare) la rabbia sociale di una larga fascia di popolazione che da 30 anni vede peggiorare le condizioni materiali della propria esistenza. 

Così i più deboli diventano “il nemico”

E mi rendo conto che c’è, nitida, una vera e propria paura di “contaminazione” con lo straniero. Una dinamica ben descritta da un gigante del pensiero come Zygmunt Bauman nel saggio “Stranieri alle porte”. L’homeless, o il migrante, è un “profeta di sventura” perché indica a tutti cosa potrebbe capitare anche a loro in un mondo di crisi che si susseguono. Diventano entrambi “fattori di corruzione” di una comunità vista altrimenti come ideale e priva di (fisiologiche) tensioni. A essere evocata è, consapevolmente o meno, è una sorta di età dell’oro che viene corrotta da “agenti esterni”. Poco importa che siano stranieri, senzatetto, comunisti, anarchici o attivisti lgbt.

Non sono narrazioni nuovissime, penso fra me. Cento anni fa ci hanno portato dentro una tragedia durata più di 20 anni, un genocidio e un conflitto mondiale. Oggi al pestaggio di un uomo di 50 anni in pieno pomeriggio. Scongiurare che la storia non si ripeta una seconda volta, nemmeno come farsa, spetta a tutti noi. 

Fonte : Today