Nirvana, la vera storia dell’ultimo (e sofferto) concerto della band di Kurt Cobain

A metà del concerto del 1 marzo 1994 al Terminal 1 di Monaco in Germania, durante uno dei blackout che fanno saltare la corrente, il bassista dei Nirvana Krist Novoselic dice: «Ce ne andiamo, il nostro prossimo album sarà un disco hip-hop. Il grunge è morto, i Nirvana sono finiti». È una drammatica anticipazione di quello che succederà: il concerto nell’ex hangar dell’aeroporto di Monaco sarà l’ultimo dei Nirvana.

Un’esibizione sofferta, con un’acustica complicata, diversi problemi tecnici e Kurt Cobain perso nelle sue dipendenze. I Nirvana suonano anche la cover di The Man Who Sold the World di David Bowie e quella di My Best Friend’s Girl dei The Cars, chiudono con Heart-Shaped Box dall’ultimo album In Utero, ma non riescono neanche a fare la loro canzone più famosa, Smells Like Teen Spirit che li ha lanciati al successo in tutto il mondo solo tre anni prima. Il giorno dopo, Kurt Cobain viene visitato da un medico che gli diagnostica una grave bronchite e laringite, cancella le altre date del tour dei Nirvana e vola a Roma, in Italia per incontrare Courtney Love

Il 4 marzo viene ricoverato in ospedale per overdose di alcol e farmaci (Rhoypnol e champagne). Secondo Courtney Love è un tentativo di suicidio. Kurt torna in America, si fa ricoverare al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles per iniziare un percorso di disintossicazione di due mesi ma dopo il primo giorno scappa, sale su un aereo per Seattle e si chiude nella sua casa su Lake Washington Boulevard dove viene trovato morto la mattina dell’8 aprile.

Finisce così la storia di una band che ha riportato rabbia, autenticità e verità nei concerti rock degli anni 90, abbattendo le barriere tra il mainstream e l’underground. «Non gli fregava niente se sbagliavano una nota o un accordo» ha detto il fotografo Charles Peterson che ha documentato tutta la loro carriera e la scena grunge di Seattle «Non avevano nessuna intenzione di suonare canzoni perfette, e Kurt si sentiva libero di fare quello che sentiva».

I libri di fotografie di Peterson raccontano il caos e l’estasi dei concerti dei Nirvana e il rapporto viscerale con la musica, la chitarra e il pubblico di Kurt Cobain. «Ricordo un concerto al Motorsport Garage di Seattle nel settembre 1990, un anno dopo l’uscita del primo album Bleach» dice, «È stato epico, era come vedere un quadro di Pietre Brugel: Kurt cantava circondato da ragazzi che continuavano a salire sul palco e a lanciarsi».

Secondo Peterson, Kurt ha trovato sul palco la sua dimensione: «Era un ragazzo timido e introverso che ha capito come raggiungere la libertà personale che non aveva in nessun altro ambito della sua vita». Il manager dei Nirvana Danny Goldberg ha scritto nel suo libro del 2019 Serve the Servants: «Il modo di cantare, di scrivere e di comunicare di Kurt Cobain scatenava una combinazione di idealismo, ironia, oscurità, cinismo, empatia. Kurt affrontava ogni concerto come se fosse l’ultima vita di uscita. Il suo dono era entrare in contatto diretto con i ragazzi, che grazie a lui potevano dire: non sono io l’unico pazzo». Negli ultimi tour della loro carriera, mentre le dipendenze e la depressione prendevano il sopravvento sulla fragile salute mentale di Kurt, secondo Charles Peterson la band aveva perso qualcosa:

«Facevano grandi concerti, ma l’innocenza era perduta. Dave Grohl è una macchina rock’n’roll che potrebbe andare in tour ogni giorni della sua vita senza nessun problema, ma per Kurt era diventato tutto troppo difficile».

Resta il messaggio di una band che dal vivo esorcizzava i propri demoni ed esprimeva il proprio dolore esistenziale scaricando elettricità, volume ed elettricità sul pubblico scatenando una reazione entusiasta. «Non avrebbero potuto continuare in quel modo senza un aiuto» dice Charles Peterson,. «Se avessero imparato a contenere il dramma che si portavano dietro potevano diventare come i Pearl Jam. Ma quel dramma era un elemento troppo importante dei Nirvana».

Fonte : Virgin Radio