Ernesto Assante è stato il profeta di un nuovo modo di essere giornalisti

Ernesto Assante è stato giornalista in una maniera completamente diversa dagli altri. Non era giornalista per dare notizie, né per intervistare persone (benché abbia fatto e facesse entrambe queste cose molto e più che bene) era giornalista perché voleva organizzare cose e mettere in piedi grandi imprese. Specialmente nel settore musicale. E il giornalismo, da quando lui ha iniziato a lavorare in quel mondo a fine anni ‘70, era una delle maniere migliori per farlo. Delle molte caratteristiche dei giornalisti quella che padroneggiava come pochi altri era la capacità di mettere in connessione le persone e formare gruppi. Lo faceva con un carisma e un’elettricità contagiose di fronte alle quali era davvero complicato dire di no, anche quando i progetti erano fumosi per non dire assurdi. I critici sono persone genericamente odiate, e più lavorano ad alti livelli più sono avversati, screditati, considerati sempre e comunque dei venduti (al sistema, alle major, a chiunque paghi), Ernesto Assante invece era fichissimo. Il più moderno di tutti. Da sempre. Il profeta del giornalismo contemporaneo già negli anni ‘90. E che il prototipo del giornalista moderno non venisse da cronaca, politica, sport o esteri ma fosse uno di spettacoli con la fissa per la tecnologia era in sé una goduria!

Se era così intimamente moderno era perché era attratto dal nuovo, dai territori in cui non c’è ancora un sistema gerarchico, una struttura rigida, degli interessi, dei capitali, degli obblighi e tutto quello che tarpa la libera creatività. Per questo era sempre alla ricerca di un nuovo luogo in cui creare cose senza troppi obblighi o controllori Come qualsiasi giornalista moderno scriveva, parlava in radio, sapeva stare in video e aveva grandi competenze tecnologiche. I media digitali lo attendevano anche se internet (notoriamente molto più lento di Assante) doveva ancora arrivare. Tutto quello che Ernesto Assante ha fatto e per il quale le persone che oggi lo piangono possono ricordarlo con buona probabilità lo ha fatto da pioniere. Lì dava il suo meglio. Poteva essere una trasmissione televisiva, una radio (FM ma anche online, podcast o streaming, fate voi), un nuovo giornale online, una fanzine (era fissato), una casa editrice o anche un cattedra di una facoltà nuova (Scienze della comunicazione a fine anni ‘90) in cui fare insegnamenti nuovi con un piglio nuovo, il punto era poter improvvisare sulla base di tutto quello che sapeva e conosceva. C’era solo da imparare. Continuamente da quello che era il modello di qualunque giornalista di spettacoli che voglia fare questo lavoro con successo oggi. E divertircisi. Modello ovviamente irraggiungibile: “…altrimenti saresti te Assante. E invece sono io”.

Un viaggio professionale pieno di storie

Repubblica l’aveva agganciato molto presto, quando la testata era nata da poco ed era ancora un giornale pieno di ragazzi. Lui aveva più o meno vent’anni. Da lì in poi avrebbe sempre fatto molte più cose che il solo scrivere di musica, primo tra tutti collaborare con diversi giornali (oggi è la regola per ogni giornalista che inizia, all’epoca si sognava il posto fisso). Online si trovano moltissimi necrologi in cui sono elencate le sue imprese, sono le più varie ma tantissime più assurde mancano all’appello (per un periodo organizzava tour a Londra sui luoghi delle canzoni dei Beatles, ultimamente faceva degli spettacoli parlando di musica sulle navi!). Dentro Repubblica aveva creato tantissime cose, che per l’appunto era quello che gli interessava davvero: animare idee e metterle in piedi con telefonate incredibili della durata media tra i 60 e i 120 secondi nelle quali reclutare chiunque a costi irrisori per progetti descritti in modi mirabolanti. Poteva convogliare talent di massimo livello ma anche bassa manovalanza con frasi a cui era impossibile dire di no: “È il progetto più importante della mia vita, e quindi anche della tua” oppure “Mi serve la tua capacità di fare finta di sapere le cose”.

Molti di questi progetti poi cambiavano, lui si stufava, li lasciava andare, peggioravano o nemmeno partivano. Una piccola percentuale diventava cose pazzesche come Repubblica.it, da lui fondato negli scantinati della sede del giornale a piazza Indipendenza a Roma con Vittorio Zambardino e Gualtiero Peirce. Un pezzo di granito della storia di internet in Italia. Era il 1996 e nessun grande quotidiano italiano ipotizzava una propria versione online, anche in America non tutti i giornali avevano una presenza seria in rete. Lo tenne per un anno facendo quello che faceva sempre, cioè creare qualcosa di utopico: “Poi si sono accorti delle potenzialità e ci hanno messo un direttore vero. Hanno fatto bene. Io lo gestivo come una comune hippie”.

Fonte : Wired